Ghurba è una parola araba che sta per esilio, assenza dal proprio paese, ma per i Palestinesi, privati della terra dei propri genitori, della storia e dell’identità, è una perenne nostalgia. Secondo lo scrittore Mourid al-Barghouthi, i Palestinesi soffrono di ghurba come si soffre d’asma.
Attualmente ci sono più di 5 milioni di Palestinesi nei Territori Palestinesi Occupati di Cisgiordania e Striscia di Gaza e più di 8 milioni rifugiati palestinesi sparsi per il mondo o sfollati interni. La maggioranza dei Palestinesi sono quindi profughi. Stando ai dati dell’UNRWA, l’Agenzia ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente, sono 775.000 i rifugiati registrati in Cisgiordania e 1.4 milioni nella Striscia di Gaza. Le loro case, proprietà e villaggi d’origine si trovano all’interno dei confini di Israele, a meno di 100 km di distanza – così vicine rispetto alle proprietà di altri rifugiati nel mondo – ma impossibili da raggiungere.
La ghurba diventa realtà quotidiana per questi Palestinesi che vivono da rifugiati in Palestina, da stranieri nella loro propria terra. Non è dunque un tipico esilio, è lo sradicamento che si soffre senza emigrare.
La particolarità della situazione dei profughi palestinesi è visibile nel fatto che sono l’unico popolo ad avere un’Agenzia ONU specificatamente dedicata a loro. L’UNRWA nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania gestisce 27 campi e fornisce in maniera permanente una serie di servizi essenziali a cui solitamente provvede lo Stato, dalle scuole, agli ospedali, all’assistenza sociale fino alla protezione dei diritti umani. Secondo il diritto internazionale, in particolare la IV Convenzione di Ginevra, dovrebbe essere Israele, in quanto stato occupante, a curarsi dei bisogni e dei servizi della popolazione occupata, ma questo è ben lontano dall’essere rispettato.
Le condizioni nei campi rifugiati in Palestina sono generalmente povere, con un’alta densità di popolazione in uno spazio ristretto e conseguenti condizioni igienico-sanitarie e ambientali molto precarie. Spesso nei campi risiedono molte più persone di quelle effettivamente registrate. Il campo di Shu’fat, nei pressi di Gerusalemme, ospita circa 25.000 persone su un’estensione di 2Km2 e di queste solo 10.069 sono rifugiati ufficialmente riconosciuti dall’UNRWA. Il sovraffollamento e la carenza di servizi nei campi sono poi peggiorati dalla costante tensione causata dalle frequenti ed improvvise incursioni dei soldati israeliani, spesso con tanto di gas lacrimogeni.
È sicuramente difficile, in queste condizioni, chiamare il campo profughi “casa”. I rifugiati Palestinesi vivono della speranza di poter tornare laddove loro stessi, i propri genitori o i propri nonni sono cresciuti. Le chiavi delle case d’origine vengono spesso tramandate di generazione in generazione e tenute gelosamente nascoste, per evitare che i soldati israeliani le possano trovare e confiscare. La chiave, diventata il simbolo del ritorno, è infatti la protagonista principale delle opere raffigurate sui muri dei campi profughi palestinesi. È un’enorme chiave posta su un arco che accoglie ed emoziona chi fa il suo ingresso ad Aida Camp, mentre tra le sue stradine si trova un disegno della stessa dimensione di una parete con i nomi dei 27 villaggi d’origine dei residenti del campo e la scritta “We will return” – Noi ritorneremo.
L’UNRWA conferisce lo status di rifugiato non solo agli sfollati originari del 1948 ma anche ai loro discendenti. Lo status di rifugiato in Palestina è permanente e intergenerazionale, tanto che anche un ragazzino nato e cresciuto ad Aida Camp, a Betlemme, si senta un profugo e sogni di ritornare al villaggio da cui i suoi nonni sono stati cacciati e a cui neanche lui può fare ritorno.
I Palestinesi furono costretti alla fuga due volte, per la nascita di Israele nel 1948 e per l’occupazione nel 1967, a causa dei crimini di guerra e delle gravi violazioni dei diritti umani, tra cui attentati, massacri e saccheggi, commessi da gruppi sionisti prima e da Israele poi. Più di 400 villaggi palestinesi furono spopolati e poi distrutti in modo da prevenire il ritorno degli abitanti.
Le case dei Palestinesi costretti a scappare sono state considerate abbandonate secondo la legge israeliana sulla Proprietà degli Assenti del 1950 e consegnate ad Israele, che a sua volta le ha trasferite alle organizzazioni di coloni, come fa ancora oggi a Gerusalemme.
Infatti, all’interno dei Territori Palestinesi Occupati, inclusa Gerusalemme Est, il trasferimento forzato dei Palestinesi continua giorno dopo giorno, intanto che Israele accaparra tutto quello che può e si espande illegalmente sempre di più. I Palestinesi sono in costante minaccia di espulsione forzata per i più disparati, infondati ed illegittimi motivi: demolizioni abitative, sgomberi forzati, revoca dei diritti di residenza nell’area di Gerusalemme, designazioni di nuove riserve naturali o siti archeologici, costruzione di insediamenti illegali, espansione del muro di separazione e così via.
Oggi, più di settant’anni dopo esser stati dislocati e spogliati dei propri beni, i rifugiati palestinesi continuano a rivendicare il loro diritto al ritorno nelle proprie case e terre d’origine, mentre Israele continua a non permetterlo.
Lo stato occupante nega il riconoscimento e l’accettazione del ritorno come un diritto, ma solo per i Palestinesi, dal momento che la Legge del Ritorno per gli Ebrei è invece considerata la ragion d’essere d’Israele. Promulgata già nel 1950 e tutt’oggi in piena validità, la Legge del Ritorno permette a qualunque ebreo nel mondo di trasferirsi in Israele e di acquisire la cittadinanza israeliana. In pratica, tutti gli ebrei del mondo possono fare “ritorno” in un paese mai visto né conosciuto, di cui spesso non parlano neanche la lingua, mentre i Palestinesi residenti e lavoratori di queste terre, e sfollati anche a pochi km di distanza, non possono.
La Risoluzione 194 approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel ’48 prevede il rimpatrio al più presto possibile per i rifugiati palestinesi che desiderano tornare alle loro case e un risarcimento per coloro che scelgono di non ritornare o che hanno perso la propria casa d’origine. 73 anni sono passati, più di 2 generazioni di Palestinesi si sono succedute, eppure non è ancora possibile per loro tornare nei luoghi che chiamano “casa”.
Il diritto al ritorno è la chiave della causa palestinese. Si tratta di porre fine alla malattia della ghurba, ad un’attesa perenne che dura da più di mezzo secolo. Il celebre poeta palestinese Mahmoud Darwish disse: “Sogno di noi, non più vittime o eroi; vogliamo essere normali esseri umani. Quando un uomo diventa un essere umano qualunque e persegue le sue normali attività può amare od odiare il proprio paese, può decidere di stare o di emigrare. Tuttavia, perché questo accada, dovranno esserci condizioni oggettive che non esistono oggi. Fino a quando i Palestinesi verranno deprivati della loro terra d’origine, essi saranno obbligati ad essere schiavi di quella terra”.
Michela Pugliese