Per la quarta volta in appena due anni, i cittadini israeliani si recheranno nuovamente alle urne per eleggere i 120 membri della Knesset, il parlamento nazionale. Questo ennesimo appuntamento elettorale è sintomo evidente delle contraddizioni proprie del sistema partitico israeliano, sempre più frammentato in numerose liste che faticano a dare vita a maggioranze di governo stabili e coese.
Lo sa bene Benjamin Netanyahu, leader del Likud e Primo ministro dal 2009, alla ricerca di preziosi alleati che gli permettano di preservare la propria leadership in un momento per lui difficile, a causa delle tre inchieste aperte dalla magistratura in cui risulta indagato per corruzione.
In un anno cruciale anche per la Palestina – che si recherà alle urne per le legislative in maggio e per eleggere il presidente dell’Autorità nazionale palestinese il 31 luglio – i risultati delle elezioni israeliane avranno quanto mai una valenza regionale, nonostante tutti i principali candidati siano più che mai concentrati su tematiche interne quali la lotta alla pandemia, la campagna vaccinale e la ripresa economica. Dalla capacità di Israele di dotarsi di un governo stabile e soprattutto dalla coalizione partitica che lo sosterrà, si potrà capire infatti se il paese si muoverà verso una direzione di discontinuità oppure continuando ad adottare le misure di Netanyahu, tanto in politica interna che estera.
Come si è giunti alle elezioni
Le elezioni del marzo 2020 avevano sancito la vittoria di Netanyahu ma anche una netta affermazione del partito Blu e Bianco di Benny Gantz, separato dal Likud da appena tre seggi alla Knesset (36-33). Nato con l’intento di porre fine all’era Netanyahu e proporre un governo alternativo al paese, la formazione di centro Blu e bianca ha sostanzialmente fallito nel suo intento, aumentando sì i propri consensi ma non riuscendo ad affermarsi come prima forza politica del paese.
Di fronte a un’emergenza sanitaria incalzante e all’ennesima tornata elettorale inconcludente, Netanyahu e Gantz decidevano di uscire dall’impasse politica stipulando un accordo per un governo di unità nazionale della durata di 36 mesi. La carica di Primo ministro, inizialmente assegnata a Netanyahu, sarebbe passata a Gantz dopo 18 mesi.
Il governo Netanyahu V, con Gantz vice Primo ministro e Ministro della difesa, non è tuttavia durato molto tempo, mostrando tutte le contraddizioni di un patto di governo fragile e contraddittorio. La fine dell’esecutivo si è consumata con la mancata approvazione della legge di bilancio, che ha determinato lo scioglimento automatico della Knesset a dicembre 2020 e l’indizione di nuove elezioni.
Le forze politiche in gara
Il 4 febbraio si è chiusa la fase di presentazione delle liste al Comitato elettorale centrale; i cittadini che si recheranno alle urne il prossimo 23 marzo avranno la possibilità di scegliere tra 39 liste. Tuttavia, solo i partiti che supereranno la soglia di sbarramento del 3,25% parteciperanno all’assegnazione dei 120 seggi disponibili.
La figura ingombrante e polarizzante di Netanyahu ha sicuramente dominato la breve campagna elettorale, trasformando le elezioni del prossimo 23 marzo in un vero e proprio scontro tra i partiti che sostengono il Primo ministro uscente e quelli che invece puntano a spodestarlo.
Sullo sfondo di questa frattura principale sono stati declinati altri temi quali il controverso programma di vaccinazione nazionale, portato avanti con determinazione da Netanyahu escludendo di fatto i palestinesi dei territori occupati, la strategia d’uscita dalla pandemia e la lotta alla corruzione.
Secondo gli ultimi sondaggi pubblicati dal quotidiano Haaretz, il Likud rimarrebbe in testa nelle intenzioni di voto, potendo aspirare fino a 28 seggi nella nuova Knesset. Il partito del premier ha impostato la propria campagna elettorale cercando di mostrare Netanyahu come un politico affidabile che, nonostante le difficoltà del momento, ha ottenuto importanti successi in campo internazionale (Accordi di Abramo con Emirati Arabi e Bahrain e normalizzazione dei rapporti diplomatici con il Marocco), impegnandosi altresì energicamente nella lotta al Coronavirus.
Oltre che sui voti del proprio elettorato, il Likud potrà contare sul sostegno dei partiti di ispirazione religiosa ortodossa come Shas e Yahadut Hatorah, suoi tradizionali alleati. Tuttavia, la vera incognita per Netanyahu sulla strada che porterà ai 61 seggi richiesti per controllare la Knesset si chiama Yamina, un partito di estrema destra che potrebbe guadagnare fino a 12 seggi, diventando il vero ago della bilancia al momento delle consultazioni post-elettorali.
Sul fronte anti-Netanyahu la situazione è quanto mai fluida. Se le previsioni dei sondaggi venissero confermate, il partito Blu-bianco di Gantz subirebbe un emorragia di voti, scontando con un calo dei consensi la propria partecipazione al governo Netanyahu. A raccogliere lo scettro di secondo partito di Israele si candida invece Yesh Atid (C’è Futuro), partito laico moderato il cui leader, Yair Lapid, ha abbandonato la precedente alleanza con il partito Blu-bianco in aperta opposizione alla decisione di Gantz di aderire al governo Netanyahu.
La sinistra israeliana si presenterà alle urne divisa. Per lo storico Partito Laburista, che a partire dalla metà degli anni ’90 ha subito un netto e costante calo di consensi, la speranza si chiama Merav Michaeli, uscita vincente dalle primarie del partito a gennaio. Michaeli, giornalista di successo e attivista per i diritti delle donne, incarna le speranze di rinascita dei laburisti; ha infatti promesso di intraprendere una campagna di profondo rinnovamento che dovrà riportare il partito agli antichi splendori, riconquistando quegli elettori di sinistra che hanno progressivamente optato per altre liste disperdendo la base elettorale laburista. Se Michaeli riuscirà nel suo intento lo si potrà stabilire solo sul lungo periodo; al momento sembra certamente improbabile un exploit del suo partito alle urne.
A sinistra dei laburisti si colloca Meretz di Nitzan Horowitz, un partito che fa della difesa dello stato sociale e della separazione stato-religione il tratto distintivo del suo programma in politica interna. In politica estera è favorevole alla soluzione dei due stati. Tuttavia, il peso elettorale di Meretz è alquanto limitato, attestandosi secondo gli ultimi sondaggi disponibili a 3-4 seggi alla Knesset.
Importante novità rispetto alle precedenti tornate elettorali è l’uscita dalla Lista unica dei partiti arabi di Ra’am di Mansour Abbas, che rappresenta l’ala più conservatrice dell’elettorato arabo. Abbas non ha espresso pregiudiziali nei confronti di un dialogo attivo con Netanyahu, in vista dell’affermazione di un’agenda politica apertamente conservatrice. Tuttavia, difficilmente riuscirà a superare la soglia di sbarramento. I restanti tre partiti arabi correranno insieme nella lista unica che, secondo le previsioni, dovrebbe guadagnare nove seggi, sei in meno rispetto a quelli che deteneva nella Knesset uscente.
Focus: il diritto di voto in Israele
La possibilità di partecipare alla vita politica del proprio paese attraverso il voto o candidandosi con una lista rappresenta un diritto umano fondamentale sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti umani (art. 21) e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici (art. 25), oltre che da numerosi trattati a livello regionale. I diritti di elettorato attivo e passivo vengono poi normalmente declinati nelle costituzioni nazionali e ulteriormente protetti con disposizioni che non ne permettono l’abrogazione.
Pur qualificandosi come un paese democratico a tutti gli effetti, dal punto di vista della tutela giuridica dei diritti di elettorato attivo e passivo permangono in Israele alcune criticità che andrebbero affrontate dal legislatore per allineare il sistema giuridico nazionale agli standard internazionali in materia di diritti civili e politici.
Israele non dispone di una costituzione scritta. In attesa dell’approvazione di un testo costituzionale organico, tale funzione è svolta da 14 leggi fondamentali che definiscono e regolano i poteri dei diversi organi istituzionali del paese. Le leggi che rilevano per il diritto di voto sono la legge fondamentale sulla Knesset (del 1958, emendata poi nel 1987) e la Legge sui partiti politici del 1992.
L’art. 4 della legge sulla Knesset riconosce il diritto di elettorato attivo a tutti i cittadini che hanno raggiunto i 18 anni di età, elevando a 21 anni il requisito per potersi candidare alle elezioni. Tale diritto è sancito universalmente, senza alcuna discriminazione, insieme a principi fondamentali come quello dell’uguaglianza e quello della segretezza del voto.
Eppure, i diritti di partecipazione politica non sono in sé considerati come inalienabili; infatti, l’art.4 potrebbe essere facilmente abrogato o emendato dalla Knesset a maggioranza semplice. Il parlamento dispone quindi di un potere teoricamente illimitato di concessione o revoca di due diritti politici fondamentali.
Inoltre, la legge sui partiti politici del 1992 stabilisce che è vietata la partecipazione alle elezioni di tutti i partiti che agiscono per minare l’esistenza d’Israele, la sua democrazia o che supportano la lotta armata contro lo Stato. Sebbene queste siano disposizioni che si ritrovano frequentemente nei sistemi costituzionali di diverse democrazie, in Israele questa legislazione necessita di un’accurata e attenta interpretazione da parte delle corti, per evitare che venga usata come pretesto per estromettere dalla vita politica la minoranza araba che costituisce il 21% della popolazione israeliana.
L’impossibilità per i palestinesi di godere effettivamente dei propri diritti politici si manifesta in maniera ancora più evidente nel territorio di Gerusalemme Est, area della città occupata da Israele dal 1967 ma reclamata dall’Autorità palestinese come propria capitale. Qui il rischio è quello di una doppia discriminazione: non essendo cittadini israeliani, i palestinesi di Gerusalemme Est non possono votare alle elezioni della Knesset pur vivendo in un territorio occupato da Israele. Allo stesso tempo, rischiano di non poter essere rappresentanti neanche nelle istituzioni dell’Autorità palestinese, qualora il nuovo governo israeliano dovesse impedire lo svolgimento delle elezioni previste per maggio e luglio.
Il quadro politico-istituzionale di Israele alla vigilia delle elezioni del 23 marzo ci restituisce la fotografia di un sistema democratico sicuramente dinamico e affermato ormai da decenni, minacciato però da crescenti sfide di diversa natura: un’instabilità e frammentazione politica ormai fisiologica e apparentemente insanabile, diritti politici formalmente riconosciuti ma che necessiterebbero di forme di garanzia in linea con gli standard internazionali in materia di diritti umani oltre alla questione, mai risolta, dell’effettiva integrazione della minoranza araba nella vita politica del paese.
A seggi chiusi si capirà se Netanyahu sarà in grado di riproporsi come Primo ministro; è chiaro però che in gioco c’è molto di più. Dal responso delle urne dipenderà la possibilità, per Israele, di maturare la volontà politica di affrontare questioni cruciali alla cui risoluzione è legata la possibilità per il paese di rafforzare il proprio sistema democratico e avviare un dialogo costruttivo con il vicino palestinese.
Giammarco Guzzetti