Con un’affluenza alle urne del 67%, in calo rispetto alla precedente tornata elettorale di Marzo 2020, si sono tenute martedì scorso le elezioni legislative israeliane, le quarte nel giro di due anni e mezzo. Le operazioni di scrutinio si sono concluse venerdì 26, quando il Comitato Elettorale Centrale ha annunciato i risultati ufficiali.
Nessuna grande sorpresa rispetto ai sondaggi della vigilia e agli exit poll: Israele si trova nuovamente in una situazione di stallo politico, caratterizzata dall’opposizione di due blocchi partitici, pro o contro Netanyahu, alquanto eterogenei dal punto di vista ideologico. Nessuna di queste due compagini è al momento in grado di raggiungere autonomamente la quota di 61 seggi necessari per controllare la Knesset. Il fronte pro-Netanyahu può contare attualmente su 52 seggi. Il Likud del primo ministro uscente, pur confermandosi come primo partito del paese, porterà in parlamento 30 rappresentanti, sette in meno rispetto a quelli su cui poteva contare nella Knesset uscente; un risultato sicuramente deludente, vista la campagna elettorale pervasiva, incentrata sulla figura di Netanyahu e la campagna vaccinale che sta gradualmente riportando Israele alla normalità.
I tradizionali alleati di governo di Netanyahu, i partiti di ispirazione religiosa Shas e Giudaismo Unito nella Torah (UTJ), mantengono inalterata la loro compagine parlamentare, mentre è il Partito Sionista Religioso – una formazione di estrema destra che si oppone fermamente alla creazione di uno Stato palestinese e supporta attivamente la sviluppo di nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania – a incrementare considerevolmente i propri consensi, guadagnando sei seggi parlamentari. Pur totalizzando 57 seggi, il blocco anti-Netanyahu non ha per questo più possibilità di formare una coalizione di governo. Pur accomunati dalla volontà di estromettere definitivamente Netanyahu dal governo del paese, i partiti del blocco sono molto eterogenei dal punto di vista ideologico, fattore che complica il dialogo in vista della formazione di un nuovo governo alternativo.
Secondo partito in termini di preferenze è Yesh Atid di Yair Lapid, il quale ha catalizzato i voti dell’elettorato liberale e moderato facendo valere la propria decisione di non seguire Benny Gantz, leader del partito Blu-bianco, nell’avventura del governo di coalizione con Netanyahu. Positivo il risultato elettorale della sinistra israeliana. L’ambizioso programma di riforma del partito avviato dalla carismatica Merav Michaeli è valso ai Laburisti un incremento di cinque parlamentari rispetto a quelli eletti nella Knesset uscente. Si tratta di un primo importante risultato sul quale si baserà tutta la strategia futura di rinnovamento del più importante partito della sinistra israeliana.
I possibili scenari futuri
52-57 è il risultato uscito dalle urne. All’appello mancano undici seggi, quelli guadagnati complessivamente da due forze politiche estremamente diverse tra loro dalle quali passano, necessariamente, le poche speranze di costruire una coalizione di governo in grado di ottenere la fiducia del parlamento. Da un lato Yamina, un partito di estrema destra guidato da Naftali Bennett, ex Ministro della Difesa di Netanyahu, candidatosi a diventare il futuro leader della destra israeliana, il quale non ha ancora confermato il suo appoggio ad un eventuale governo di coalizione guidato dal leader del Likud. Dall’altro Ra’am, di Mansour Abbas, un partito che rappresenta l’ala più conservatrice dell’elettorato arabo-israeliano; pur staccatosi dalla lista unica dei partiti arabi, Ra’am è riuscito a superare la soglia di sbarramento del 3,25%, riuscendo a far eleggere ben quattro parlamentari, un tesoretto dal quale Netanyahu non potrà prescindere se vorrà formare un governo.
Secondo la prassi istituzionale israeliana, i risultati delle elezioni verranno comunicati al Capo di Stato, il Presidente Rivlin, il quale avvierà una fase di consultazioni con i partiti al termine della quale verrà conferito l’incarico al leader con maggiori possibilità di ottenere la fiducia in parlamento. In alternativa, verranno convocate nuove elezioni. In termini puramente aritmetici, Netanyahu avrebbe bisogno sia dei voti di Yamina che di Ra’am, mentre alla coalizione guidata da Yair Lapid basterebbe il solo supporto di Mansour Abbas per raggiungere la fatidica “quota 61”.
Tuttavia, in un contesto altamente polarizzato come quello israeliano, i calcoli politici male si conciliano con le ideologie dei singoli partiti che formano i due blocchi contrapposti. L’apertura di Netanyahu al partito conservatore di Mansour Abbas farebbe necessariamente venir meno il supporto dei partiti sionisti, i quali si sono già dichiarati indisponibili a sedere in una coalizione con un partito definito “islamista”. Non meno complessa è la situazione sul fronte opposto. Pur contrario ad un nuovo governo Netanyahu, il partito Nuova Speranza di Gideon Sa’ar si è già espresso negativamente nei confronti dell’ipotesi di un governo al quale partecipino anche i partiti arabi della Lista Unica. Di fronte ai veti incrociati in entrambi gli schieramenti, al momento lo scenario più probabile è quello di nuove elezioni a meno che Netanyahu, nel corso delle consultazioni, non riesca a spaccare la coalizione dei suoi oppositori.
I riflessi sul popolo palestinese
Il protrarsi della situazione di incertezza politica in Israele non rappresenta sicuramente uno scenario auspicabile per la vicina Palestina. Infatti, la mancanza di un chiaro interlocutore da parte israeliana, non fa che complicare un dialogo israelo-palestinese già di per sé difficoltoso a causa delle reciproche diffidenze e delle politiche di Netanyahu poco concilianti. In termini di orientamento politico del prossimo governo, l’inaspettato exploit del partito di Mansour Abbas complica la creazione di un nuovo governo di destra, nettamente orientato su posizioni antipalestinesi su questioni cruciali come gli insediamenti israeliani in Cisgiordania e la soluzione dei due Stati.
Tuttavia, l’instabilità politica israeliana ha riflessi anche su due questioni fondamentali per il futuro prossimo del popolo palestinese. La prima riguarda l’esercizio dei diritti civili e politici fondamentali, in vista delle prossime elezioni legislative e presidenziali dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il presidente Mahmud Abbas ha infatti manifestato la volontà che le prossime consultazioni possano svolgersi a Gaza e in tutta la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, settore della città ancora sotto il controllo di Israele. È auspicabile quindi che Israele riesca a dotarsi di un nuovo governo, con il quale l’Autorità Nazionale Palestinese possa almeno rapportarsi per affrontare il nodo delle elezioni a Gerusalemme Est.
Una seconda questione riguarda il diritto alla salute del popolo palestinese e, in particolare, la distribuzione dei vaccini contro il Covid-19 in Cisgiordania e Gaza, finora sostanzialmente escluse dalla campagna vaccinale di massa lanciata da Netanyahu. Come sottolineato in un report della Banca Mondiale, un maggiore coordinamento e dialogo tra Israele e l’Autorità palestinese rappresentano un fattore cruciale nella lotta alla pandemia da Covid-19 in Medio Oriente, potendo portare alla realizzazione di una campagna vaccinale efficace, inclusiva e non discriminatoria. Coordinamento e dialogo, due aspetti essenziali per affrontare le sfide complesse dell’immediato futuro ma che dipendono, necessariamente, dalla presenza di interlocutori politici ben definiti da entrambe le parti, mossi dalla volontà di trovare soluzioni condivise che possano portare ad una pace duratura nella regione.
Giammarco Guzzetti