Wise voices stories è una rubrica che ha come obiettivo quello di raccontare la Palestina attraverso le storie di esperti, organizzazioni e attivisti che vivono in loco. Diamo voce a chi la Palestina la vive e la affronta quotidianamente. Per gli articoli dedicati al patrimonio culturale palestinese abbiamo il piacere di intervistare la Dott.ssa Carla Benelli, storica dell’arte e project manager dell’associazione no profit ATS Pro Terra Sancta, dove si occupa della conservazione del patrimonio culturale e dell’integrazione della comunità locale. Grazie alla sua dedizione, competenza e impegno, nel 2019 ha vinto il premio Person of the Year per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale da parte dell’Osservatorio Internazionale Archeomafie ed il Centro per gli Studi Criminologici.
Il conflitto israelo-palestinese permea tutti gli ambiti, compreso quello del patrimonio culturale palestinese. Lei è presente sul territorio ormai da diverso tempo. Dagli anni ‘90 ad oggi, ha notato un cambiamento delle politiche da parte dell’amministrazione israeliana e palestinese nei confronti dei beni archeologici?
Gli israeliani nel 1948 avevano idee molto chiare riguardanti le principali strategie da attuare e tra queste la più importante era e rimane tutt’ora il controllo più ampio possibile di questo territorio. Tutto ciò è stato fatto basandosi sull’ideologia che questo fosse territorio ebraico dal quale la popolazione ebraica è stata cacciata via. Un territorio dato da Dio. Ma il problema più grosso è stato forse che questo Stato fosse voluto ed appoggiato dalla comunità internazionale. La strategia di appropriazione del territorio è passata anche attraverso l’uso dell’archeologia. Questa è stata sistematicamente utilizzata per rivendicare il diritto sul territorio solo di una parte della popolazione, per l’altra fetta, invece, si andava a togliere e a negare il diritto di stare in quel territorio e godere di quel patrimonio culturale. Tu che sei un arabo, musulmano, arabo cristiano non hai diritto di vivere in queste terre. La metodologia è di rivendicare la presenza ebraica in questo territorio presente sin da 3000 anni. Il suo passato può essere solo ebraico e in questo modo è stato cancellato del tutto il patrimonio arabo-musulmano. Vi faccio un esempio per capire meglio di cosa stiamo parlando: sono state fatte recenti scoperte sul Mar Morto e vi chiedo, avete mai sentito dire o letto da qualche parte che la maggior parte delle grotte sono in aria C, cioè territorio occupato? E avete per caso letto da qualche parte che è inequivocabilmente illegale sotto tutti i punti di vista e risoluzioni delle Nazioni Unite che, gli israeliani scavino in territori occupati? È giusto che nessuno abbia mai sottolineato che è illegale fare scavi archeologici nei territori occupati? Tutto ciò è scritto nella Convenzione dell’AIA del 1954. Questo per dirvi che Israele non ha affatto modificato né idee né politica, tuttavia gli unici che scrivono e denunciano questi fatti sono i pochissimi e denigrati studiosi archeologi israeliani, ma è sconcertante che nemmeno un palestinese abbia fatto ricorso per ciò che accade con gli scavi nel Mar Morto.
Tornando al patrimonio archeologico, dobbiamo fare un bel passo indietro fino al ’67. Per la Bibbia la costa è sempre stato un luogo vissuto dai filistei, quindi di poco interesse per la religione ebraica, mentre al contrario le zone ebraiche fondamentali all’interno dei passaggi biblici da Abramo ai profeti, sono in gran parte in Cisgiordania come Hebron, Betlemme, Gerusalemme e Nablus. Questi erano luoghi in cui gli Israeliani avevano e continuano ad avere rivendicazione e di fatto hanno costruito gran parte degli insediamenti. Ricordiamo che non solo sono territori ricchi di risorse ma anche di Storia. Ed è più facile eliminare la storia di un popolo come quello chiamato in causa e, ricostruire a tavolino quella del popolo israeliano con le sue rivendicazioni e una comunità internazionale che non mette in discussione niente di tutto ciò che Israele ha deciso per le sorti di entrambi i popoli.
Si parla molto del ruolo delle istituzioni sia palestinesi che israeliane nelle dinamiche inerenti al patrimonio culturale palestinese. Qual è invece la percezione del proprio patrimonio culturale per la popolazione palestinese? Che tipo di legame si evince?
Il popolo palestinese è molto interessato al proprio patrimonio, alle proprie origini ma anche a quelle ebraiche e cristiane, perché c’è un concetto diverso per quanto riguarda il tema dell’appartenenza, ovvero a chi appartiene il patrimonio. Va ricordato che le leggi sul patrimonio culturale attestano che i monumenti, opere o siti, anche se di altra religione, rimangono patrimonio del popolo di quel territorio. Perciò non si può pensare che monumenti appartenenti alla cultura ebraica, ma in territorio palestinese, possano essere definiti patrimonio israeliano, il diritto internazionale non dice questo. Noi non possiamo rivendicare, ad esempio, in quanto italiani, il vallo di Adriano in Inghilterra. Ma cosa fanno le autorità palestinesi per proteggere il proprio patrimonio? C’è da sottolineare che purtroppo esiste un grosso limite che è quello di non coinvolgere la comunità locale quando si parla di patrimonio culturale. Non li biasimiamo, il patrimonio culturale probabilmente è l’ultimo dei loro problemi. Qui si parla di sopravvivenza. Se solo avessero capito però che la cultura, la storia è sinonimo di identità forse le cose sarebbero state diverse. Tuttavia, oggi le cose sono cambiate, le autorità sono più consapevoli su questo tema ed è anche passata una nuova legge che permette alle autorità palestinesi di gestire alcune parti del territorio (anche se pur piccole rispetto al controllo israeliano). Ma il punto, anche qui, è cosa fa la comunità internazionale per sostenere il popolo palestinese? Non ha assolutamente aiutato questo popolo e le poche volte che ha aiutato lo ha fatto davvero male.
Sappiamo che parte del suo lavoro consiste nel monitorare e salvaguardare, il patrimonio culturale in medio-oriente, in particolare in Palestina. Ci potrebbe raccontare in cosa consiste il suo lavoro? in che sito sta lavorando al momento?
Noi (Ats Pro Terra Sancta) coinvolgiamo le comunità locali permettendo loro di conoscere il proprio patrimonio, per ridare identità al popolo palestinese tramite la loro storia. Ci rifacciamo alla Convenzione FARO siglata dal Consiglio d’Europa, che regolamenta il diritto umano alla cultura. Le popolazioni hanno diritto, in quanto comunità, di interessarsi, proteggere e conoscere il proprio patrimonio culturale. Quindi è necessaria l’educazione al patrimonio e alla sua conservazione. Non c’è qualcuno che viene da fuori, internazionale, a proteggere i siti ma è la comunità locale che se ne occupa e deve occuparsene. È fondamentale questo passaggio. Si è visto nel medio-oriente cosa è successo al patrimonio culturale quando non sono stati dati gli strumenti alle comunità locali per proteggere quest’ultimo. Noi portiamo i nostri ragazzi e ragazze palestinesi a restaurare i loro siti, siamo un’organizzazione non governativa e non dipendiamo dai governi.
Sappiamo che ha lavorato nel sito archeologico di Sebastya e ad oggi sta lavorando in quello di Betania, qual è attualmente la situazione in questi siti archeologici?
Anche qui quando parliamo di Sebastya parliamo dell’indecenza dell’UNESCO che attraverso il finanziamento del Belgio, ha utilizzato tali risorse per pavimentare il Foro Romano, per fare un parcheggio degli autobus. Era già parcheggio perché terra piatta e le macchina parcheggiavano lì, ma ci giocavano anche i bambini e l’UNESCO invece di conservarlo e magari destinarlo ad altro, lo ha ripavimentato per un parcheggio? Tra l’altro quello ai tempi, prima degli scavi, era terreno dei contadini che non volevo cedere perché banalmente serviva a loro.
In seguito al progetto di Betania stiamo lavorando con l’università Arcuz e di Palermo proprio per istituire il Diploma di Studi per i Tecnici Restauratori. Ed è così che potranno essere autonomi nella conservazione del LORO patrimonio.
Di recente la Dj Sama Abdulhadi è stata arrestata per aver suonato musica techno nel sito di Nabi Musa. Questo luogo è stato recentemente ristrutturato, crede che la musica o altri eventi culturali simili possano ridare vita, conoscenza ed incentivare il turismo e quindi l’economia delle città nelle quali si trovano?
A questa domanda rispondo collegandomi a quelle precedenti soprattutto quando parliamo di comunità internazionale e del ruolo di questa nella conservazione del patrimonio. La dj Sama non aveva minimamente idea di dove stesse suonando. La comunità europea sostenuta dalle Autorità Palestinesi – probabilmente incoraggiati dall’arrivo di 5.000.000 di euro – per restaurare un sito mamelucco al profeta Mosè. Praticamente un cenotafio nel deserto dedicato al profeta Mosè, un luogo santo. Lì è stato costruito un albergo in un santuario con i soldi europei. È come se noi costruissimo un albergo e organizzassimo concerti al Santuario Divino Amore di Roma, secondo voi è possibile? No, ma neanche si prende in considerazione una follia del genere. Dunque, il problema non è la giovane artista o la comunità musulmana che si è arrabbiata. Il problema è come vengono gestiti questi progetti e la loro finalità.
Uno dei tanti modi sotto cui si sviluppa il conflitto è appunto l’appropriazione e, nel peggiore dei casi, danneggiamento del patrimonio culturale, quale potrebbe essere secondo lei una strategia per poter tutelare maggiormente questi beni?
Bisogna far partecipare in primis la comunità locale, bisogna educarli, come già detto, alla conservazione del patrimonio. Sicuramente un altro fattore è la cognizione di causa dei progetti. UNESCO e Comunità Internazionale dovrebbero studiare e saper gestire i progetti finalizzati alla conservazione dei beni del territorio palestinese, invece è palese che qui ci siano prima di tutto dei beneficiari che di base sono i governi, perché l’UNESCO come tutti gli enti delle Nazioni Unite, dipende dai governi e non dai popoli. Pertanto, è praticamente impossibile per un popolo far fronte agli israeliani e alla comunità internazionale, quando hai una classe dirigente che è facilmente corruttibile. La strategia per tutelare maggiormente questi beni? Bisogna partire da chi riceve i benefici o quanto più ampio riesci a distribuire questa ricchezza, ed è questo che crea una società in grado di crescere culturalmente, economicamente e socialmente.