“Resteremo qui finché ci sono ulivi e zaatar”. Recita così un antico detto palestinese, ancorato a ciò che di essenziale la terra palestinese dona: timo (lo za’atar) e l’ulivo.
Elemento forgiante la storia della Palestina sin dall’antichità, ad oggi si stima che circa il 57% della superficie coltivata sia occupata da uliveti, con 10 milioni di ulivi piantati in 900.000 acri. Per la Palestina, l’ulivo rappresenta una risorsa, prima di tutto.
Culturale, perché simbolo di un attaccamento alla terra natia. La longevità degli alberi di ulivo e la loro capacità di adattamento anche ai terreni più angusti e meno fertili si intreccia in profondità con l’intramontabile resilienza e tensione verso l’autodeterminazione che ha caratterizzato i trascorsi del popolo palestinese sin dall’antichità e che risalta ancor più negli ultimi 80 anni di avvicendarsi di terre confiscate, soprusi e restrizioni imposte da Israele.
Economica, principalmente per la produzione di olio. Tra le 80.000 e le 100.000 famiglie in Palestina basano la loro sussistenza economica sulla produzione di olio, con più del 15% delle donne lavoratrici impegnate nella raccolta e una grande partecipazione di personale non qualificato. A livello nazionale, la coltura delle olive contribuisce per circa il 15% al reddito agricolo della Palestina, stimato come il 2,4% del PIL. Tra i vari tipi pregiati di olio palestinese, il più famoso è quello di Beit Jala, ricavato da uliveti secolari di più di 200 anni e fortemente rinomato per la sua coltura in luogo ritenuto sacro a livello religioso.
In una Palestina membro del Consiglio Oleico Internazionale da aprile 2017, impresa familiare e mercato estero si fondono tra gli uliveti a Tulkarem, Nablus e Jenin, portando avanti una tradizione che risente negativamente, oggi forse più che mai, del cambiamento dei tempi, sotto tanti punti di vista. Lo sottolinea Fareed Taamallah, giornalista palestinese, agricoltore e attivista a Ramallah, proprietario di una fattoria nel villaggio di Qira, in Cisgiordania. Urbanizzazione, pesanti oscillazioni nella produzione annuale, cambiamento nelle tendenze di consumo e dirottamento verso l’olio industriale, guadagni limitati e cambiamento climatico sono variabili ad impatto negativo sulla coltura e produzione prese in considerazione, che vanno a sommarsi agli atti di vandalismo e al negato accesso alle terre di cui l’esercito israeliano ne è il più delle volte responsabile.
Esemplificativo in tal senso il rapporto OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari) pubblicato nel gennaio 2021: secondo le stime del Ministero dell’Agricoltura palestinese, nel 2020 sono state prodotte 13.000 tonnellate di olio di oliva, circa il 55% in meno rispetto al 2019. Le cause? Dando per assodate le difficoltà legate al contesto prettamente politico, scarsa distribuzione delle piogge, temperature rigide durante il ciclo di crescita delle olive, l’alternanza di stagioni di fruttificazione positive e negative. A questo si aggiunge l’impatto della pandemia da COVID-19 sul mercato del lavoro, con il 43% dei posti persi considerando l’intera economia palestinese.
A dispetto delle avversità, però, la stagione della raccolta delle olive prende posto nelle giornate palestinesi a partire dalla metà di ottobre e riunisce intere famiglie, quasi a simboleggiare un’apparente serenità e un clima di comunione sotto le frasche di ulivi secolari.
Ed è proprio in quel momento che l’ulivo, da risorsa economica, testimone di sudore e fatica, si trasforma in alimento. Per la Palestina, l’olio d’oliva è nutrimento onnipresente sulle tavole e nelle case. Basti semplicemente pensare al più comune hummus di ceci, o alla salsa babaganoush di melanzane. Ma alla fine della raccolta, il piatto più famoso per celebrarlo è il muskhan, pane arrostito con pollo e patate e condito con olio d’oliva e sumac, una polvere rossa ricavata da un albero perenne (il sumac, appunto) diffuso in tutto il Mediterraneo. Come racconta Fidaa Abuhamdiya, cuoca e scrittrice palestinese, il muskhan viene servito su un piatto tondo a simboleggiare il cerchio della famiglia che si riunisce alla fine del lavoro per fare festa insieme.
Ma dall’ulivo palestinese non si ricava solamente olio per la vendita alimentare. Un altro esempio di intreccio tra cultura, tradizione ed economia è la produzione di sapone all’olio di oliva, conosciuto in tutto il mondo come sapone di Nablus, città nella Cisgiordania settentrionale, dove viene prodotto sin dal decimo secolo d.C. Al massimo della fioritura agli inizi del 1900, con circa 40 fabbriche produttrici di sapone ed esportazioni in Europa e negli Stati Uniti, a seguito di un terremoto nel 1927 e dell’occupazione israeliana durante la seconda intifada conclusasi nel 2005, ad oggi rimangono solo tre aziende ancora in funzione: la Tuqan Factory, la Nablus Soap Company e la Shakaa Factory, la prima e la terza appartenenti a rispettive ricche famiglie della città di Nablus. La fabbrica di sapone Arafat, in disuso e al centro della Città Vecchia, è stata trasformata in un centro per il patrimonio culturale a partire dal 2008. La lavorazione del sapone rimane ancora quella tradizionale, con una combinazione di olio d’oliva, acqua e bicarbonato. Il processo dura diversi giorni e il confezionamento avviene ancora a mano.
Anche in questo caso, l’impatto negativo dell’importazione di olio dall’Europa, il costo della manodopera e della lavorazione nettamente superiori a quello commerciale, il crescente numero di posti di blocco e dazi per le materie prime, così come il gravoso processo per ottenere i permessi di commercio ed esportazione da parte di Israele gravano inesorabilmente sul mercato del sapone di Nablus e per il suo rendimento economico per il popolo palestinese.
Ma perentoriamente, la resilienza e l’attaccamento alla tradizione radicato nella Palestina più vera giocano ben più della razionale ed oggettiva bilancia dei costi e benefici.
Forse è proprio questo il nocciolo della questione, per il popolo palestinese: un ulivo che sia risorsa e alimento, ma per l’anima. Inscalfibile.
Articolo pubblicato su Fernweh