Il 30 marzo del 1976, sei giovani palestinesi vennero uccisi e furono causati più di 100 feriti durante un tentativo di impedimento di quella che voleva essere la confisca di 2.000 ettari di terreno appartenenti alle loro comunità da parte delle autorità israeliane. Da allora, ogni anno, in tutti i territori palestinesi si commemora quella giornata con il nome di Yom al-Ard o Land Day. In questa occasione si piantano ulivi, si canta, si marcia e si manifesta, per ribadire il legame con una terra negata, derubata a poco a poco, da quasi un secolo.
La terra è un elemento essenziale alla vita degli individui e al pieno sviluppo delle comunità, per questo ricopre una posizione importante nell’assetto delle risorse strategiche in mano agli stati, tanto da diventare essa stessa un’arma che distingue chi detiene il potere da chi lo subisce, chi la possiede da chi no o, nel caso palestinese, non più. Il nome land-grabbing, in italiano “accaparramento di terra”, indica un fenomeno dalla forte connotazione negativa che avviene quando ampie porzioni di terra privata, e le relative risorse, vengono prese da enti pubblici o privati senza il consenso delle persone o delle comunità che vi abitano. È un fenomeno guidato da interessi economici e politici di poteri sovrani ed imprenditoriali a discapito dei diritti, dei bisogni e delle speranze delle comunità locali.
La terra derubata viene vista come una merce, come un mero mezzo da sfruttare al massimo per ottenere compensi economici ed ulteriori risorse, da chi non ne conosce il clima, il suolo, la storia e non ne ha vissuto i cambiamenti quotidiani. Ma è proprio la terra la base che permette il godimento di una molteplicità di diritti umani, dal diritto all’acqua, al cibo, ad una casa, fino alla salute e più in generale, come nel caso palestinese, all’autodeterminazione. La terra è infatti centrale non solo per il sostentamento e la sicurezza alimentare di una comunità, ma anche per la conservazione dell’identità della comunità, del suo passato, della vita e delle tradizioni delle generazioni che l’hanno lavorata e abitata. Le conseguenze del land-grabbing non sono perciò solo economiche, ma anche sociali, politiche e culturali, e perdurano negli anni, nei decenni.
L’accaparramento della terra in Palestina ed i suoi devastanti impatti sono iniziati ben prima dell’occupazione israeliana del 1967. Lifta è lo specchio che riflette ancora questi impatti. Immersa oggi in un silenzioso angolo di verde e arroccata su dolci colline, il sito di Lifta ricorda ancora il villaggio palestinese che era prima della guerra del ’48. Sentieri stretti e curvilinei si snodano tra le grandi case in pietra diroccate, con le loro maestose finestre ad arco, le ampie terrazze ed i muri spessi, ora ricoperti di foglie, radici e graffiti. Il villaggio di Lifta aveva una moschea, un frantoio, dei negozi, due scuole elementari ed una popolazione di quasi 3.000 abitanti, a maggioranza musulmana e con qualche famiglia cristiana. Il villaggio possedeva 1.200 ettari di terra, ricchi di ulivi, viti, fichi, albicocche, mandorle, prugne, melograni e agrumi, oltre a campi di spinaci, cavolfiori, piselli e fagioli che hanno dato a Lifta un tempo di fertile prosperità. Nel dicembre del ’47, dopo un attacco con mitragliatrici e granate ad un caffè, iniziò a Lifta un periodo di brutali attentati terroristici e razzie da parte delle organizzazioni paramilitari sioniste dell’Haganah, dell’Irgun e dalla Banda Stern, che demolirono la maggior parte delle case palestinesi nella periferia orientale del villaggio e costrinsero i residenti a fuggire. Definita da alcuni “la Pompei palestinese” per il suo essere sospesa nel tempo, Lifta è tra i pochissimi villaggi palestinesi, forse l’unico, a non essere stato ripopolato o completamente distrutto dagli israeliani in seguito allo sgombero forzato dei suoi residenti tra il ’47 ed il ’48.
Dopo essere stata spopolata con la forza, è stata abbandonata, come una terra ormai conquistata e depredata, che ha perso d’importanza. Dopo la guerra, la zona fu incorporata nello stato di Israele e ai residenti non fu più permesso di tornare. L’obbiettivo principale era espropriare e allontanare i palestinesi, non la terra di Lifta in sé. Nel 1987, la Israel Nature and Parks Authority, l’agenzia governativa israeliana che gestisce e si prende cura delle riserve naturali e dei parchi nazionali, pianificò di ripristinare il villaggio abbandonato e di trasformarlo in un centro di studi di storia naturale a cielo aperto che avrebbe “sottolineato le radici ebraiche del sito”. Più di recente, dal 2012, Lifta è stata minacciata da un piano di riqualificazione che avrebbe distrutto le rovine per sostituirle con hotel, abitazioni e negozi di lusso. Dopo numerose battaglie ed obiezioni da parte di attivisti israeliani e palestinesi, compresi i discendenti degli ex residenti del villaggio, il sito è rimasto intatto, almeno per ora.
Oggi Lifta è considerata una riserva naturale israeliana, dove è possibile fare bagni, passeggiate e i pic-nic, senza che i più sappiano il suo tragico passato, senza né una targa né alcun tipo di indicazione a ricordare la Nakba e gli eventi che l’hanno portata ad essere così com’è oggi. Il land-grabbing fa anche questo, cancella o distorce la storia di un luogo. Ma le antiche dimore sono in piedi da prima della nascita dello stato di Israele e testimoniano una storia che non vuole essere falsificata, abbellita e rivenduta. Bastano loro, guardiani silenti, a ricordare il passaggio delle vite delle genti palestinesi, a celebrarle con la sua amara e pericolante bellezza, così intima, così umana.
Michela Pugliese