La Diaspora della Vittima
“Diaspora” è un termine di origine classica che fa riferimento all’espansione greca. Inizialmente aveva una connotazione positiva. Ma con l’evolversi delle esperienze, la sua definizione si è modificata. Diaspora è oggi “il movimento, la migrazione o la dispersione di un popolo lontano da un luogo stabilito o dalla propria patria.”
La più importante esperienza di diaspora è quella ebraica. “Babilonia” divenne per gli ebrei una parola in codice per l’isolamento, la sofferenza e l’insicurezza di vivere in un luogo straniero, alieno al proprio senso d’identità.
La tradizione ebraica della diaspora, “la diaspora della vittima”, è condivisa da almeno altri quattro gruppi. Sono riconosciute come diaspore: l’esperienza della tratta africana, le deportazioni armene, la migrazione degli irlandesi degli anni ’50 e, infine, la diaspora palestinese.
Con il ritiro della Gran Bretagna dalla Palestina, il 14 maggio 1948, l’esercito israeliano prese il potere. Lo stato di Israele fu proclamato su base etnica. Due terzi della popolazione araba della Palestina abbandonarono le loro case diventando rifugiati, disperdendosi prima in Medio Oriente e poi su scala globale. Nacque così l’ultimo esempio di diaspora della vittima. Tragica ironia di questa terribile esperienza, la prima vittima nel corso della storia si trasformò nell’ultimo carnefice.
Davvero una diaspora
Il termine “diaspora” non è né politicamente né epistemologicamente neutrale. La tradizione della vittima va però trascesa: le esperienze dei “dispersi” nei moderni stati-nazione sono state arricchenti, non solo spaventose. Inoltre, l’espressione “diaspora”, come osserva Safran, è diventata “una designazione metaforica” per descrivere diverse categorie di persone: “espatriati, espulsi, rifugiati, residenti stranieri, immigrati e minoranze”.
Safran sostiene che il concetto di diaspora sussiste quando i membri di una “comunità di minoranza espatriata” condividono la maggioranza delle seguenti caratteristiche: dispersione, una memoria collettiva e un mito sulla patria, un movimento di ritorno, la forte coscienza di gruppo etnico, un rapporto travagliato con le società, un senso di empatia e solidarietà tra di loro.
Nell’era del cyberspazio si tratta di comunità fluide: una diaspora può essere mantenuta o plasmata attraverso artefatti culturali e un’immaginazione condivisa. La globalizzazione a livello culturale ha determinato sia l’universalizzazione che la frammentazione e la moltiplicazione delle identità. Secondo Marienstras, “deve passare del tempo” prima che si possa sapere che una comunità migrata “sia davvero una diaspora”. Deve esistere un forte attaccamento al passato o un blocco all’assimilazione nel presente.
La diaspora palestinese in breve
Quasi il 50% dei palestinesi vive al di fuori della Palestina. Tra questi, 5,6 milioni vivono nei paesi arabi, soprattutto Libano e Giordania (44,0% del totale) e circa 700.000 (5,5%) nel resto del mondo. 4,9 milioni (38,4%) vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, e 1,5 milioni (12,1%) hanno la cittadinanza israeliana. La maggior parte dei palestinesi al di fuori della Palestina sono rifugiati esiliati nella Nakba del 1948. In seguito a queste migrazioni, i palestinesi sono stati esposti a vari condizionamenti culturali, sociali e politici; hanno ottenuto status e diritti a seconda della loro situazione personale. Ciò ha ostacolato la loro capacità di muoversi e di connettersi tra loro e con la Palestina.
La trasformazione – e la perdita – per tappe della loro patria, tra il 1948 e il 1967, ha portato i palestinesi all’evoluzione di una serie di attori e reti transnazionali. I profughi palestinesi sono stati costantemente attivisti in tutto il mondo. Hanno prodotto una vera e propria “letteratura della diaspora”, e dopo cinquant’anni di esilio continuano a lottare per il loro diritto al ritorno nel paese di origine. Ma in assenza di una patria questo ritorno è stato impossibile.
La trasformazione della patria
Solo l’élite ha potuto usufruire di un’accoglienza positiva, di solito nel Golfo, in Europa o Nord America. Questa borghesia oltreoceano ha mantenuto i contatti con i palestinesi che vivono all’interno dei Territori occupati. I rifugiati nei campi profughi, invece, sono rimasti sempre, loro malgrado, in disparte. In Libano e soprattutto in Giordania, dove i Palestinesi costituiscono metà della popolazione totale, l’esperienza palestinese è stata catastrofica e traumatica, causando sconvolgimenti politici e vere e proprie guerre. C’è da sottolineare che lo status di rifugiato spesso complica l’accesso al lavoro e la garanzia di diritti fondamentali.
La ‘trasformazione’ della patria palestinese ha preso una nuova direzione dall’inizio del Processo di Pace. Nel gennaio 1996 è stato eletto un consiglio legislativo palestinese (ANP). Così ora coesistono due strutture per governare il popolo palestinese: l’ANP in Palestina e l’OLP nella diaspora. L’OLP è affiorata per un’ampia varietà di fazioni, sindacati e altre istituzioni, un’offensiva diplomatica parallela alla lotta armata, un simbolo politico di unità palestinese.
Una comunità transnazionale
Dalla diaspora palestinese sta emergendo una nuova comunità transnazionale, focalizzata sulle attività commerciali dell’élite. Queste non hanno vissuto il sentimento di esclusione dei rifugiati nei campi libanesi o giordani. Hanno però stabilito una connessione culturale ed economica con la patria, che cresce con il passare del tempo.
Il movimento della maggior parte dei palestinesi è invece molto più limitato. I legami sociali su cui si fondano queste reti migratorie sono caratterizzati da rapporti basati su interessi, famiglia e ricordi comuni.
L’identità etnica
Per i rifugiati palestinesi l’identità etnica è più importante che per l’élite. L’identità etnica palestinese si basa principalmente su due elementi: il villaggio di origine e le reti familiari. Il villaggio è un luogo privilegiato della memoria, perché rappresenta l’espressione stessa della loro cultura ed identità. Il fulcro della vita politica, religiosa e sociale. Con la colonizzazione il simbolo del villaggio, della casa, si è deteriorato dalla memoria e dalla realtà. I campi hanno sostituito i villaggi, e oggi è il campo che regge l’identità nazionale palestinese.
Memoria e territorio
I campi non sono solo un posto in cui sopravvivere: simboleggiano l’esodo. I palestinesi portano con sé un pezzo della loro Patria e lo depositano nei campi, ricreando così una parte della Palestina. C’è una relazione tra memoria e territorio, specialmente per coloro che vivono nei campi e negli insediamenti. I campi spesso richiamano spazialmente e hanno lo stesso nome dei modelli di insediamento in Palestina. La borghesia palestinese emigrata non condivide lo stesso attaccamento al luogo in cui vive.
Si è giunti alla conclusione che rifugiati e migranti non sono semplici destinatari di aiuti, ma agenti transnazionali attivi che possono portare il cambiamento. In modi diversi, sia l’élite palestinese che gli altri rifugiati hanno sviluppato reti, attività e identità transnazionali. Entrambi con le loro caratteristiche e la loro esperienza diasporica, tutti mantengono vivo il ricordo, l’attivismo e i rapporti di potere per le formazione di uno stato Palestinese.
Raffaella Ronzi