La nuova costante che caratterizza la regione mediorientale e i suoi processi di evoluzione nel contesto geopolitico attuale è, paradossalmente, l’imprevedibilità con cui le dinamiche motrici dell’area insistono a rimodellarsi senza assestarsi. Rivelatesi inefficaci, e comunque ormai prive di valenza, le previsioni del 2020 sugli sviluppi economico-politici degli ‘Accordi di Abramo’ palesano un 2021 difforme dalle attese. Si svela l’ipocrisia delle leadership coinvolte, costrette a imbarazzanti prese di posizione e compromessi indesiderati.
Gli Accordi di Abramo
La normalizzazione delle relazioni tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein doveva rappresentare l’inizio di un nuovo capitolo nella storia del Medio Oriente. Un messaggio politico partito dagli Stati Uniti e sostenuto dalla firma di Donald Trump, accanto a quelle di Abdullah bin Zayed Al Nahyan, Abdullatif bin Rashid Al Zayani e Benjamin Netanyahu. Gli accordi, negoziati da Jared Kushner e Avi Berkowitz, e siglati il 15 settembre 2020, ricordano gli accordi di pace tra Israele ed Egitto (1979) e Israele e Giordania (1994). Un parallelismo, tuttavia, dai tratti anacronistici e decontestualizzati. Gli sviluppi strategici e gli accordi commerciali previsti dai nuovi firmatari si sono visti da subito proiettati in un Medio Oriente dal contesto mutato. Il cambio repentino di equilibri e dinamiche ha spinto le monarchie del Golfo, e non solo, a rivedere le proprie priorità e posizioni, anche sulla questione palestinese (vedi la ‘Crisi di Gerusalemme’).
Gli ‘Accordi di Abramo’ hanno rappresentato una carta vincente dell’amministrazione Trump. Nonostante la vittoria alle scorse elezioni, Biden non si è discostato di molto dall’eredità della politica estera repubblicana in Medio Oriente. La firma degli accordi intendeva “dare uno scossone a una situazione stagnante da decenni”, ha affermato Dore Gold, presidente del Jerusalem Center for Public Affairs.
L’agenda americana
Una retorica condivisa dagli Stati Uniti. Nel promuovere nuove relazioni diplomatiche e una pace stabile in Medio Oriente, già vedevano la realizzazione degli obiettivi in materia di strategie e ruoli geopolitici. Questi accordi di pace volevano rappresentare una vittoria politico-diplomatica che potesse giovare all’agenda elettorale di Trump (e a quella dell’ex premier israeliano Netanyahu). Ma la loro rilevanza non è stata del tutto screditata dalla nuova amministrazione americana; i cui obiettivi nella regione non risultano dissimili da quelli dell’ex presidente. Dalla “[…] esigenza di fondo di creare le condizioni per un disimpegno dal Medio Oriente allargato”, la necessità geopolitica di “consolidare lo spostamento verso il Pacifico del baricentro della propria strategia politica” e la “raggiunta indipendenza nella produzione di fonti energetiche, grazie all’apporto delle risorse shale”, ricaviamo alcuni validi motivi per cui Biden ha voluto mantenere la rotta.
La questione palestinese
È necessario, tuttavia, prestare attenzione alle modifiche apportate dall’amministrazione Biden; o meglio, guardare alle sfide con le quali il presidente americano ha dovuto e deve ancora confrontarsi. Dalle relazioni con la Turchia, ai tentativi di negoziati con l’Iran, alle concessioni di Trump ai leader sauditi, turchi, egiziani, emiratini e israeliani.
In tutto ciò, dove si posiziona la questione palestinese? Sicuramente gli accordi sono riusciti a stimolare un cambio di prospettiva economico-culturale per i paesi aderenti. Ma la loro firma non ha fatto che confermare la diffusa percezione dell’irrisolvibilità della questione palestinese. “In questo nuovo scenario geopolitico che sta prendendo forma in seguito agli accordi di Abramo, è chiaro che il conflitto Israelo-Palestinese non rappresenta più il fulcro della regione ma sta diventando uno strumento a disposizione delle diverse potenze mondiali per configurare nuovi equilibri strategici nell’area”.
Imbarazzata ipocrisia
Gli scontri violenti tra Israele e Hamas di quest’anno avrebbero dovuto rappresentare un punto di svolta. Le nuove dinamiche del conflitto hanno portato l’opinione pubblica a contrastare a gran voce l’escalation di violenza e condannare l’attività dei coloni. Si sta parlando di ‘crimini di guerra’. Eppure la comunità internazionale ha inizialmente criticato le azioni di Israele con tiepide dichiarazioni. Si è palesata così l’“imbarazzata ipocrisia” con cui le monarchie del Golfo e gli Stati Uniti hanno dovuto denunciare gli atti di violenza nella Gerusalemme Est occupata. Un’ipocrisia che deriva dallo sforzo dei firmatari degli accordi di destreggiarsi tra la necessità politica di condannare Israele e la sua sconvenienza strategica, data la sigla degli accordi e il processo di normalizzazione delle relazioni con lo Stato Ebraico.
L’ormai diffuso sentimento filopalestinese delle opinioni pubbliche occidentali e del Golfo mostra la discrepanza tra parole e fatti. Le dinamiche motrici della regione insistono a rimodellarsi velocemente e così si rafforzano progressivamente i sentimenti internazionali per la causa palestinese. Eppure, a decidere le rotte strategiche sono sempre le priorità politico-economiche dei paesi che hanno normalizzato i rapporti con Israele. E così facendo rivelano quella che è sempre stata una negligenza e un generale disinteresse verso le sorti dei palestinesi. “Gli Stati Uniti sono gli unici in grado di avere un impatto sul conflitto”, scrive Pierre Haski. Sarà così o, ancora una volta, l’attenzione internazionale volgerà presto il suo sguardo altrove?
Marta Lioce