Quando abitualmente si parla di conflitto israeliano palestinese, di solito lo si fa utilizzando una retorica occidentale e di conseguenza si finisce per dare un’interpretazione diversa a ciò che sta accadendo in Palestina, tenendo da parte le voci di chi il conflitto lo sta effettivamente vivendo. Per questo motivo è importante rimettere al centro la narrazione palestinese, e soprattutto le voci dei palestinesi stessi.
Uno dei mezzi più utilizzati e di largo impatto sono sicuramente i social media. Questi permettono di comunicare in maniera diretta e sincrona. Sono una grande arma in mano ai ragazzi palestinesi che li utilizzano per diffondere notizie accurate su ciò che sta accadendo, sia in Palestina, sia a livello internazionale nelle varie comunità in giro per il mondo. I social danno allora l’opportunità di celebrare e ricordare la cultura e la resistenza palestinese, sempre più minata dalla potenza israelita, scrive la Valigiablu.
I social, lasciando la possibilità di comunicare più o meno liberamente e di condividere le proprie opinioni con migliaia di persone, sono diventati ottimi alleati dei giovani palestinesi e un mezzo importantissimo per combattere l’occupazione israeliana . Negli ultimi anni, persone famose e non si sono schierate a favore della Palestina. Ne è un esempio la modella Bella Hadid che ha contribuito nel difendere i diritti palestinesi partecipando a manifestazioni e parlandone apertamente con i suoi 43 milioni di follower. Sebbene fino a qualche tempo fa sarebbe sembrato impensabile combattere la resistenza sui social, abbiamo capito che è possibile e così facendo si riesce a coinvolgere un pubblico più ampio ed eterogeneo. Nel 2021 una coppia di fratelli palestinesi è stata candidata dal New York Times tra le 100 persone più influenti dell’anno grazie al loro attivismo. Muna e Mohammed Al-Kurd hanno fatto conoscere al mondo il vero volto dell’occupazione israeliana, fornendo una nuova prospettiva sulla “questione palestinese”. Da quando hanno 12 anni documentano i soprusi di Israele attraverso i social, per tentare di cambiare l’ordine della narrazione internazionale e, appunto per questo, sono stati arrestati nel giugno del 2021 perché considerati una minaccia all’ordine pubblico.
L’Internazionale rivela che la nuova generazione palestinese padroneggia i codici culturali nazionali e internazionali e di conseguenza sta tentando di cambiare la narrazione utilizzando tutti i mezzi di comunicazione a sua disposizione, non solo attraverso i social. Infatti, Human Rights Watch sottolinea l’importanza che risiede nel costruire e condividere un vocabolario dell’occupazione, di modo da poter imparare ad utilizzare la giusta terminologia per raccontare il conflitto, la distruzione ed il trauma umano, e fornire la giusta descrizione delle vicende. Infatti, oltre a criticare il conflitto in sé e per sé, questa nuova schiera di attivisti digitali attacca anche la copertura mediatica riservata alla propaganda israelita, sottolinea Valigiablu. L’obiettivo ultimo è quello di rovesciare l’apartheid, il colonialismo e la repressione militare attraverso i mezzi di comunicazione, per portare alla luce la propria verità.
È per questo di fondamentale importanza la partecipazione di esponenti della cultura palestinese in Talk Show e programmi televisivi, per raccontare il proprio punto di vista a proposito del conflitto ma anche l’introduzione di nuove iniziative e progetti, come ad esempio lo standard for justice in palestine creato all’interno dell’Università di Chicago da un attivista politico e sociale di origine palestinese, ricorda Valigiablu. Anche in questo caso, la decolonizzazione nell’uso del vocabolario ricopre un ruolo molto importante.
Una narrazione innovativa della Palestina è sicuramente il film “An Unusual Summer” del regista Kamal Al Jafari, che ha deciso di utilizzare le riprese delle telecamere di sicurezza del vecchio “ghetto” in cui è cresciuto e di costruirci attorno un documentario, racconta il Manifesto. L’intero film narra la vita del quartiere, sebbene per molti considerato poco interessante perché ai margini della società. I protagonisti, figure di passaggio nel luogo in cui la telecamera era stata posizionata, portano con loro una logica del controllo, come mostrassero i segni di qualcosa che monitora le proprie esistenze dall’alto. Il ghetto dialoga inoltre con i sentimenti, le memorie e i non detti della vita; questa nuova modalità di raccontare la Palestina è innovativa e audace, soprattutto se si pensa che da quando il territorio nel 1948 è stato occupato, più del 90% della popolazione che usava abitare lì, ha deciso di emigrare.
Giulia Meco