Wise voices stories è una rubrica che ha come obiettivo quello di raccontare la Palestina attraverso le storie di esperti, organizzazioni e attivisti che vivono in loco. Diamo voce a chi la Palestina la vive e la affronta quotidianamente ma anche a chi sceglie di toccare con mano, per un periodo più o meno breve, questa realtà.
La Wise Voice Story di oggi ci porta a conoscere Corrado, appassionato e studioso della lingua araba, il quale per rafforzare la sua conoscenza e curiosità, si è recato in Palestina con un progetto di insegnamento.
Come è iniziata la tua esperienza in Palestina?
Ho studiato arabo all’università di Barcellona e all’interno del mio corso di studi c’era uno studente di origine palestinese con cui ho stretto amicizia. Avendo la possibilità di scegliere la Palestina come meta per la mia esperienza in un paese arabo, ho colto la palla al balzo e sono partito per vedere questa terra con i miei occhi.
Mi sono informato sul sito di Workaway. Lì ho trovato l’opportunità di fare un’esperienza di volontariato presso l’Università di Nablus come insegnante di italiano ed inglese.
Di tutta l’organizzazione, ciò che mi ha preoccupato di più riguardava il mio primo incontro con le autorità israeliane, una volta arrivato a Tel Aviv. Ero agitato perché alcune persone che conosco, una volta atterrati, si sono visti negare l’accesso al paese.
Tuttavia, posso dire di non aver incontrato nessun ostacolo al mio arrivo, cosa che invece ho riscontrato al mio rientro in Italia. Sono stato sottoposto a dei controlli di sicurezza “speciali” che prevedevano body scan, scansione di tutto quello che si possiede, nonché domande specifiche sulla mia presenza in Palestina, spesso con toni intimidatori e aggressivi. Diciamo che è stata una lunga chiacchierata.
Collegandoci ai tuoi incontri con le autorità israeliane, qual è stata la sensazione quando ti sei rapportato con loro? Ti sei mai sentito in pericolo o preoccupato per la situazione nella quale ti trovavi?
In realtà non è mai successo nulla di grave, ma la paura era quella di dire la parola sbagliata o di ritrovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Questa sensazione è stata accentuata soprattutto quando ci siamo trovati ad Al -Khalil (conosciuta anche come Hebron), città fantasma che si trova nella Cisgiordania, occupata dagli israeliani. Lì onestamente ho avuto paura perché eravamo circondati da soldati e civili armati. Dovevamo capire come muoverci e non era per nulla facile perché le indicazioni sono in ebraico. Inoltre, ogni pretesto era buono per essere fermati e indagati su cosa stessimo facendo lì. Inutile sottolineare la poca accoglienza e disponibilità.
La tua esperienza di due mesi è stata una scelta autonoma con Workaway. Cosa consiglieresti ai giovani che vogliono entrare in contatto con la realtà palestinese?
Sicuramente di informarsi sulla lingua araba, anche solo imparare le frasi di convenevoli come as-salāmu ʿalaykum. Questo ti permette sicuramente di entrare più in contatto con la gente del posto e con la loro cultura. Per il resto ti basta andare e goderti la loro ospitalità e accoglienza. Pensavo che fossero più guardinghi per via del fatto che ero straniero, l’ennesimo venuto a prendersi un altro pezzo di quel poco che gli è rimasto. Ho trovato, invece, una grandissima curiosità nel voler comunicare con me, raccontare e chiacchierare.
Durante il tuo soggiorno in Palestina, hai passato la maggior parte del tuo tempo a Nablus definita anche “La città della resistenza”. Che sensazioni ti ha suscitato?
Nablus, rispetto ad altre città della Palestina, è una città universitaria e questo si percepisce davvero. Le famiglie hanno puntato tutto sull’educazione dei propri figli. È un approccio molto bello, considerando che l’educazione può davvero produrre un cambiamento nella società, produrre idee ed avere un modo diverso di approcciarsi e diffondere il proprio pensiero. Devo dire che l’attenzione nei confronti dell’educazione è molto alta, basti pensare che all’università di Nablus. Qui si ha la possibilità di frequentare un semestre extra durante l’estate per potersi portare avanti ed accelerare il proprio percorso di studio.
Il popolo Palestinese è tra i più alfabetizzati del mondo arabo ed ho potuto notare la differenza rispetto al mio viaggio in Marocco. Qui certamente c’è una percentuale di popolazione che ha frequentato l’università, ma rimane comunque minoritaria rispetto alla maggioranza che non conosce l’arabo classico.
Un’altra bella curiosità è che per i giovani frequentare l’università significa poter viaggiare. Grazie al progetto Erasmus i ragazzi hanno più facilità a spostarsi, al contrario se decidessero di partire autonomamente le cose si complicherebbero notevolmente. Questo bando per loro è un’occasione irripetibile. Ho aiutato molti dei ragazzi che seguivano il mio corso di inglese a scrivere le loro lettere di presentazione o motivazionali, avevano tantissima voglia di visitare ed avere l’occasione di andare fuori.
Abbiamo parlato di alfabetizzazione molto alta in Palestina, ma è anche vero che all’interno dei territori occupati, specialmente nelle aree più periferiche, il tasso di drop out di studenti è sempre più alto. Perché secondo te?
Come dicevo prima, il tasso di drop-out, quindi di abbandono scolastico, è più presente in città come Al-Khalil. Qui, comunicare con i parenti del mio amico, che non parlavano arabo classico, è stato più difficoltoso. L’abbandono scolastico purtroppo è dato soprattutto dalla presenza militare nei territori, come i check point tra le varie città dove i collegamenti sono tutti controllati o dai militari israeliani o della polizia palestinese.
Diciamo che lì c’è un assenza totale dei servizi, un mal contento generalizzato nei confronti della politica palestinese e le persone non parlano liberamente della situazione che c’è. Per affrontare certi discorsi devi stare molto attento perché sono argomenti molto delicati, se parlano, ne parlano molto nascosti o in casa.
Se dovessi descriverci la Palestina che hai visto con un ricordo, una cartolina impressa nella tua mente, che cosa sceglieresti?
La mia mente in questo caso torna sempre ad Al-Khalil, quando siamo andati a visitare la Moschea di Ibrahim. Per raggiungerla abbiamo dovuto passare diversi check point, controllo passaporti, ed una serie di domande che andavano dal perché fossimo lì al quale fosse la nostra religione. Alla fine siamo riusciti a visitare la moschea. Mi ha un po’ straziato il cuore vedere che situazione i palestinesi dovessero sopportare per andare semplicemente a pregare. Quando si esce dalla moschea si notano le torrette di controllo dei militari e si vede come i palestinesi, anche anziani, venissero scacciati fuori il più velocemente possibile. Ho questo ricordo impresso. Uscendo dalla moschea in un clima di ostilità da parte dei militari, ci siamo ritrovati davanti ad un forno palestinese che fa focacce. Lì due signori ci hanno visto, ci hanno sorriso e ci hanno offerto il pane. È stato un momento particolare: noi guardavamo il pane e poi le torrette e non capivamo come si potesse scambiare una vittima per un terrorista. Sono tornato dalla Palestina con un cuore più grande, ma indubbiamente più appesantito.