“Israele è cosi prostrata da non avere gli strumenti per sedare e opporsi alla resistenza della Palestina”. Così dichiarava il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amirabdollahian, ad aprile 2022 – commentando con un tono lapidatorio la difficoltà del governo isrealiano di contenere e
reprimere gli scontri con il popolo palestine che avevano raggiunto in quel periodo toni sempre piùaccesi. Otto mesi dopo, quelle parole sembrano essergli rivoltate contro.
Rivoluzione del popolo
Il 16 settembre Mahsa Amini muore in una caserma di Teheran, dopo che la polizia morale l’aveva arrestata perché dichiarata colpevole di aver indossato male il velo. Dalla protesta delle donne iraniane che prende piede nelle piazze, malgrado il pugno di ferro del governo iraniano,
l’espressione popolare di sdegno contro il regime si è ampliata sempre più, coinvolgendo più che in passato ceti sociali diversi, mettendo in secondo piano le divisione etniche interne al Paese, facendo risonanza nei media a livello mondiale. Cosa direbbe Amirabdollahian, a distanza di otto mesi? Paradossalmente, il governo di Teheran pare ritrovarsi nella stessa situazione di Israele, incapace di fare leva sull’autarchia del suo potere per mettere un freno efficace alla rivolta e ripristinare, in maniera definitiva, la sicurezza del Paese – punto cardine della narrazione a difesa della repressione della sommosse da parte del presidente Ebrahim Raisi.
Il filo rosso della rivoluzione dal basso, tra regimi e società patriarcali
La rivoluzione è donna, riportano testate giornalistiche di tutto il mondo analizzando gli avvenimenti che si stanno susseguendo in Iran. È stata donna anche in Palestina, durante l’esodo della Nabla, tra gli anni Sessanta e Settanta, dove la protesta spontanea a sostegno del popolo e dell’identità palestinese diede vita nel 1965 all’Unione Generale delle Donne Palestinesi e nel 1978 ai Comitati di Lavoro delle Donne.
Se a Teheran è la rivoluzione femminile a essere miccia per concretizzare il malcontento popolare e l’opposizione civile al regime, in Palestina questa si inseriva al tempo nella narrazione della lotta del popolo palestinese all’oppressione israeliana alla luce del diritto di autodeterminazione della sua identità: prima la Palestina, poi i diritti e la libertà delle donne palestinesi.
Un altro livello di congiunzione, facendo un passo temporale avanti nel mondo palestinese: l’intromissione del regime iraniano nella vita privata delle donne da una parte, i rigidi schemi della cultura patriarcale palestinese dall’altra. In entrambi i contesti, è la resistenza femminista a farne da contraltare. E nell’espandersi della mobilitazione della società civile si tesse un’altra trama rossa che lega i due popoli: l’attivismo delle generazioni giovanili. A inizio dicembre, 143 università risultavano essere in sciopero a Teheran e dintorni, a cui si uniscono studenti e studentesse liceali che utilizzano l’arma più efficace in loro possesso – il boicottaggio delle lezioni – per dichiarare apertamente la loro battaglia contro il sistema prestabilito a favore di libertà e laicità nel loro Paese. In Palestina, il fervore rivoluzionario negli spazi accademici trova altrettanto terreno fertile: nel 2020 Israele poneva il Popolo Studentesco Democratico Progressivo, terza più grande organizzazione studentesca nella lista nera, definendolo come organizzazione terroristica alla luce del suo schierarsi apertamente contro l’occupazione israeliana.
Arresti forzati e torture, detenzione amministrativa e repressione in virtù di un mantenimento dello status quo che vede nei due treati un tentativo di mettere a tacere le voci del futuro. Strategia efficace? Stando all’attuale incessante mobilitazione giovanile, molto probabilemente no. Perché, usando le parole di Ali Vaez, i giovani iraniani non hanno niente da perdere. E i giovani palestinesi, questo, lo sanno bene.
Da acerrimi nemici a strategie di repressione comuni
Teheran e Gerusalemme sembrano allora parlarsi nello scacchiere del Medio Oriente. E se fanti e cavalli sono utilizzati dai due governi, acerrimi nemici, per arrivare allo scacco matto di uno verso l’altro – come gli ultimi botta e risposta di droni iraniani alla Russia e piano di attacco israeliano contro le strutture nucleari iraniane – sul piano di gioco della repressione la strategia sempre essere invece comune. Il filo rosso dei regimi autocratici, ognuno con i suoi diversi strumenti. Se in Iran la polizia morale è diventata il fulcro nevralgico nella giustificazione del governo degli atti repressivi per mancanza di rispetto al codice di condotta islamico, in Israele l’etichetta di “lotta al terrorismo” nella maggior parte delle azioni contro la popolazione palestinese potrebbe rappresentarne l’altarino, in aggiunta alla risposta militare per scongiurare il rischio della fine di una stabilità durata decenni.
Il futuro dei prossimi mesi è tutto da scrivere, soprattutto nella storia di Teheran. E se la politica divide i due Paesi, la volontà dei popoli unisce come supporto reciproco per chi la rivoluzione l’ha giusto lanciata sotto nuove vesti e per chi da anni si scontra con un meccanismo repressivo prestabilito che segrega libertà e autodeterminazione tra confini sempre più stretti.