“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali“. Così cita l’articolo 11 della Costituzione italiana.
Eppure, secondo lo Yearbook 2022 dell’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (SIPRI) l’Italia, con il 3,6%, risiede al sesto posto tra i principali esportatori di armi. Cifra elevata per un paese che pone il ripudio alla guerra come principio fondamentale. Cifra preoccupante, se il suddetto paese vieta l’esportazione di sistemi militari in regioni in conflitto armato. Per di più con governi responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani.
Un business fin troppo proficuo per l’Italia
L’Italia è terza tra gli esportatori di armi verso Israele, secondo il SIPRI Arms Transfers Database. Nonostante il conflitto pluridecennale che coinvolge Israele, gli import ed export bellici con l’Italia sono oramai caposaldo dei rapporti tra i due paesi. Dietro gli oltre 90 milioni di euro di forniture vi sono armi automatiche, bombe, razzi, missili, munizioni, strumenti per l’addestramento, veicoli terrestri e aeromobili.
Il risvolto più preoccupante è come gli armamenti di imprese italiane possano essere effettivamente utilizzati per commettere atrocità contro la popolazione palestinese. Ad esempio Leonardo, Ase Aerospace, CABI Cattaneo, Fimac, Forgital, Leat, Mecaer, MES, OMA Officine, Sicamb e Teckne. Lo dimostra l’M346, un velivolo militare designato all’addestramento, che può essere però armato e diventare mezzo per bombardare Gaza e la Cisgiordania. Non è un caso che nel 2020-2021 gli export di materiali bellici italiani verso Israele siano aumentati da 5 a 23 milioni di dollari. Ma l’Italia ripudia la guerra?
Quante le normative ignorate?
Non solo l’Italia sembra non adempiere alla propria normativa nazionale ma sembra ignorare completamente alcune delle risoluzioni emanate dalle Nazioni Unite. Per esempio, la General Assembly con le risoluzioni 3414 (1975) e ES-9/1 (1982) esortava a imporre un embargo sulle armi vendute a Israele. Nel 2018, lo Human Rights Council incoraggiava gli Stati ad assicurarsi che Israle non utilizzasse le armi fornite per commettere gravi violazioni del diritto internazionale. Nelle discussioni dello Human Rights Council per una Commissione di Inchiesta, avanzano accuse contro Stati Uniti, Germania e Italia, imputati di fornire assistenza militare a Israele.
Non curante degli obblighi nazionali e internazionali, l’Italia continua a vendere armi e ad alimentare conflitti e tensioni anche in altre zone calde del mondo. Nel 2020 il governo italiano ha spedito 16, 3 milioni di euro di dispositivi militari ad Arabia Saudita e Emirati Arabi, implicati nei bombardamenti in Yemen. Lo UN Group of Eminent Experts on Yemen ha riportato foto di resti di bombe dell’azienda RNW Italia, prova della partecipazione in una delle peggiori crisi umanitarie di tutti i tempi.
E quale giustificazione spiega allora la vendita di armi a zone di tensione? Profitto, interesse politico o “stabilità del Medio Oriente”?
Ciò che è chiaro è il costo umano dietro una tale ipocrisia. In Yemen, dal 2014, si contano migliaia di civili uccisi e altri milioni sull’orlo della fame. 200 sono i palestinesi, inclusi 59 bambini, che sono morti durante i bombardamenti israeliani contro Gaza del 2021.
Eppure c’è chi si rifiuta di essere ipocrita e di essere un mero ingranaggio della macchina dell’industria da guerra. Sono stati i lavoratori portuali di Genova e di Livorno a opporsi ai carichi di armi destinati ad Arabia Saudita e Israele. Una forte iniziativa dal basso, nell’attesa che i piani alti riacquistino un po’ di umanità.
Laura Caramignoli