di Michela Pugliese
Nakba, parola araba per “Catastrofe”, rievoca la cacciata del popolo palestinese dalla propria terra avvenuta tra il 1947 e il 1948. Le distruzioni, le sparizioni e un generale stato di terrore provocato dalle milizie paramilitari sioniste avevano il solo scopo di costituire uno stato esclusivamente ebraico: Israele.
Per conoscere e comprendere la storia dei palestinesi di oggi bisogna tornare a una data chiave attorno alla quale ruotano ancora paure, rivendicazioni e speranze: il 1948. “Quell’anno,” scrive lo storico e poeta palestinese Elias Sanbar, “un paese intero e la sua popolazione sono scomparsi sia dalle mappe che dai dizionari”.
Le distruzioni e l’esodo forzato
Sanbar ricorda così l’esodo forzato di quasi 800.000 palestinesi durante la guerra civile che infuriò in Palestina dal novembre 1947 al 15 maggio 1948, terminata con la proclamazione unilaterale dello Stato di Israele e l’inizio della prima guerra arabo-israeliana. Tale momento storico, tanto breve quanto feroce, ha visto la distruzione di più di 500 villaggi, lo spopolamento di intere aree urbane, l’espulsione forzata di centinaia di migliaia di palestinesi, così come l’uccisione di un numero non identificato di nativi.
Più della metà della popolazione palestinese originaria fu costretta alla fuga dalle milizie armate sioniste, le loro case fatte saltare in aria, una dopo l’altra.
Lungi dall’essere una “semplice” occupazione di un paese in guerra con un altro, è passata alla storia come “Nakba”, la Catastrofe. E, 75 anni fa, è risultata nella concreta sostituzione di un popolo intero con una comunità di 600.000 coloni. Trasferitisi in Palestina da altre parti del mondo, si trattava principalmente di europei che portavano con sé specifiche ideologie occidentali di natura economica e culturale, volte alla costruzione di uno Stato esclusivo degli ebrei, ossia all’espulsione e al trasferimento forzato dei nativi.
Questo emerge chiaramente dalle parole di Joseph Weitz, direttore del “Jewish National Land Fund”, nato in Europa dell’Est ed emigrato in Palestina nel 1908. Nel dicembre del 1940 scriveva: “Deve essere chiaro che non c’è posto per tutti e due i popoli in questo paese. Se gli arabi lo lasciano, il paese sarà più grande e più disponibile per noi. E se gli arabi restano il paese rimarrà piccolo e miserabile”.
Il Piano Dalet ed il colonialismo sionista
Le pretese coloniali di accumulazione delle risorse e di assoggettamento dei nativi si tradussero nella Nakba e, in particolare, nel “Piano Dalet”. Si tratta di un’operazione per la sistematica espulsione dei palestinesi messa in atto dalle organizzazioni paramilitari sioniste, per ottenere l’esclusiva presenza ebraica in Palestina. L’obbiettivo del Piano Dalet era duplice: cacciare i nativi, ma anche prevenirne il ritorno.
In uno studio monumentale del 1992, un gruppo di ricercatori palestinesi guidati dal Professore Walid Khalidi testimonia le circostanze della distruzione di 418 villaggi palestinesi. Di questi, 293 sono stati completamente rasi al suolo, 90 largamente distrutti e solo 7 sono “sopravvissuti” e sono oggi occupati da coloni israeliani.
Ilan Pappè, storico israeliano, riferendosi al 1948 ricorda: “La campagna, il cuore rurale della Palestina, con i suo villaggi colorati e pittoreschi, è stata deturpata. Metà dei villaggi è stata distrutta, appiattita dai bulldozer israeliani al lavoro ininterrottamente da quando il governo ha deciso di trasformarla in campi da coltivare, o di costruirci sopra insediamenti sionisti”. Una terra irriconoscibile, sfigurata da un popolo che, infatti, prima non la conosceva.
L’inghiottimento di un universo
“Nel 1948 i palestinesi percepivano il loro paese non come territorio occupato ma come una terra che era stata inghiottita”, ha scritto Sanbar. “Dalla Nakba la guerra sionista ha preso radicalmente una nuova svolta: d’ora in poi sarebbe stato un record di sparizioni, non di mere occupazioni”.
Primo fra tutti gli inghiottimenti, per numero di vittime e testimoniata spietatezza, il massacro del villaggio pastorale di Deir Yassin, il 9 aprile 1948. Qui le organizzazioni paramilitari sioniste dell’Irgun e della Banda Stern uccisero a sangue freddo centinaia di civili palestinesi in un giorno solo. Fu uno dei principali momenti che spinsero alla fuga diverse comunità palestinesi, dopo mesi e mesi di guerra, in uno stato psicologico di terrore e disperazione che si è propagato come una scarica elettrica negli altri villaggi. Da allora il nome “Deir Yassin” è diventato sineddoche della Nakba stessa: una porzione di quella paura di essere uccisi per comprendere il tutto.
A causa di queste sparizioni, dirette e indirette, dei 1.400.000 palestinesi residenti nel territorio assegnato dall’ONU al futuro stato di Israele prima della Nakba, solo 150.000 palestinesi sono stati registrati come “presenti” durante il primo censimento effettuato dal nuovo stato israeliano.
La distruzione fisica dei villaggi e l’espulsione forzata dei nativi hanno aiutato a perpetuare il falso mito sionista che voleva la Palestina come una terra vuota prima dell’arrivo dei coloni. “Il popolo palestinese non esiste”, dichiarò più volte la Prima Ministra israeliana Golda Meir, nata in Ucraina ed emigrata in Palestina nel 1921. Per quanto fosse una ridicola falsificazione della realtà, la Nakba del ‘48 ha reso possibile e oliato quel processo di cancellazione fisica e simbolica che continua tutt’oggi.
Il 1948 è una data chiave. Non solo per le stragi ad opera delle organizzazioni militari sioniste, ma perché ha portato alla sostituzione, anche retorica, di un’intera nazione e del suo popolo. Un universo intero è scomparso nel ’48 e pochi se ne sono curati, tanto che oggi Israele sogna un’altra grande espulsione.
I diritti (negati) di vivere e di ritornare
Scrive lo storico di origine palestinese Nur Masalha: “Costretti a lasciare lo spazio, i palestinesi hanno abbandonato anche il tempo. La loro storia e il loro passato sono continuamente negati. Le loro aspirazioni e il loro futuro costantemente proibiti.”
Dagli espropri forzati al confino in enclavi sempre più piccole. Dalle carcerazioni senza accuse né processo al ricatto di lavorare in Israele sconfinando dai territori occupati, come irregolari voluti ma braccati. Dalla negazione della nazionalità ai palestinesi residenti in Israele al rifiuto sistematico dei permessi per costruire una casa. Dalle spedizioni punitive dei coloni degli insediamenti fino alla negazione del diritto dei rifugiati palestinesi a fare ritorno. La Nakba, lungi dall’essere un mero ricordo, è diventata l’emblema delle molteplici oppressioni che i palestinesi devono affrontare ogni giorno da decenni, dentro e fuori la Palestina.
“Ongoing Nakba”
Oggi, i palestinesi rappresentano il gruppo di rifugiati più numeroso al mondo. La loro condizione si tramanda di famiglia in famiglia, di generazione in generazione.
La Risoluzione 194 delle Nazioni Unite sancisce un “diritto al ritorno”. Ma ancora oggi Israele non consente ai palestinesi cacciati nel ‘48 di fare ritorno ai loro vecchi villaggi o alle loro vecchie abitazioni, sia in Israele che nella Palestina occupata nel ‘67. Questo al fine di assicurare una maggioranza demografica ebrea e massimizzare il controllo sulle terre e sulle risorse a vantaggio degli ebrei israeliani.
La Nakba non è solo la catastrofe che 75 anni fa ha visto i palestinesi perdere tutto il proprio universo e diventare invisibili. È un processo senza tregua di accumulazione, espulsione e cancellazione, anche fisica, da parte di Israele. Tutto ciò è dimostrato anche dal recente massacro di Jenin e dalle violente irruzioni alla moschea di Al Aqsa durante questo Ramadan. Distruzioni e inghiottimenti, ma anche continua, eterna, speranza di ritornare.
I palestinesi parlano quindi di “ongoing Nakba” per riferirsi alla più lunga occupazione militare che la storia moderna abbia mai visto, e a un legittimo diritto al ritorno che non smetteranno di rivendicare.