Di Martina Pia Piccariello
I palestinesi hanno una parola per indicare l’impulso ad esistere. Lo chiamano sumud, che letteralmente significa “fermezza”. Esso è simboleggiato dall’ulivo, che rimane saldo in mezzo ai continui cambiamenti climatici. Il Sumud è libertà, ma non incondizionata, perché il suo raggiungimento presuppone la giustizia per tutti. È l’unica soluzione possibile a un conflitto che ha fatto così tante vittime.
(Rebecca Gould, The Palestinian Art of Existence)
Il termine sumud (صمود ) è una parola araba che significa letteralmente “fermezza” o “resilienza”. Viene solitamente utilizzata per descrivere la resistenza quotidiana non-violenta del popolo palestinese contro l’occupazione israeliana.
Una resistenza fatta di piccoli gesti, di arte, di lavoro, di proteste e scioperi. Micro-rivoluzioni che dimostrano la straordinaria forza di un popolo sottoposto da decenni a continue violazioni del proprio diritto all’auto-determinazione.
Una rivolta fatta di routine, contro lo status quo, portata avanti da decenni anche dalle donne. Dalle più benestanti a quelle del ceto basso, dalle lavoratrici alle casalinghe, che, giorno dopo giorno, resistono.
Tra di loro vi sono le giornaliste palestinesi di Gaza che, insieme ai loro colleghi stanno raccontando quotidianamente i crimini e gli incessanti bombardamenti dell’esercito israeliano.
Dal momento in cui lo Stato d’Israele ha chiuso l’accesso dei civili nella Striscia di Gaza e ha vietato ai media e ai giornalisti stranieri di entrare, gli unici rimasti a testimoniare la situazione e le atrocità sono stati i reporter gazawi.
Tra di loro molteplici donne che, nonostante vivano in prima persona le innumerevoli difficoltà come la fame, i continui spostamenti in cerca di riparo, la sete e il freddo, sono l’occhio interno che permette al mondo di vedere, quasi in diretta, tutto ciò che accade nella Striscia.
Le storie delle giornaliste di Gaza
16 sono le reporter che hanno perso la vita dall’inizio degli attacchi.
Duaa Sharaf era a casa con la sua famiglia, quando il 26 ottobre un attacco israeliano ha raso al suolo la zona residenziale di Yarmouk, uccidendo lei e sua figlia. Ayat Khadoura, dopo aver postato un video dove diceva di temere per la sua vita, è morta in un bombardamento il 20 novembre 2023. Farah Omar è stata colta da un missile poco dopo aver concluso una diretta nel Sud del Libano. Amal Zadd, Shima El-Gazzar, Ola Atallah e, ancora, Dua al-Cebbar. Nomi che si sentono poco nei media occidentali, ma che sono di reporter morte a casa o facendo il proprio lavoro.
Il Comitato per la Protezione dei Giornalisti ha recentemente dichiarato che il 75% dei giornalisti uccisi nel 2023, è morta a causa degli attacchi di Israele nella Striscia di Gaza. Si è giunto a pensare che molti reporter siano diventati dei veri e propri target dell’esercito israeliano.
Ma, malgrado tutto questo, giornaliste come Plestia Alaqad o Hind Khoudary di 22 e 28 anni continuano a riferire e vivere, allo stesso momento, l’eccidio in corso. Vivono la resistenza. Anche se tutto questo accade alla propria famiglia, ai propri amici, alla propria città, alla propria nazione. Perché questo è il sumud: persistere per resistere!