Di Silvia Pizzigoni
Il rapporto di Amnesty International del 5 dicembre 2024 lancia gravi accuse contro Israele, sostenendo che le sue azioni nei confronti della popolazione palestinese di Gaza configurino un vero e proprio genocidio. Analizzando le sistematiche violazioni dei diritti umani avvenute nei nove mesi successivi al 7 ottobre, il documento rivela prove inquietanti, tra cui l’impiego di armi esplosive in aree densamente popolate e le disumanizzazioni pronunciate da funzionari israeliani. Il rapporto invita a riflettere profondamente sulla deumanizzazione nella violenza collettiva, sfidando l’idea preconcetta che un popolo vittima non possa mai diventare oppressore. Capire le dinamiche di questa crisi e il significato di questi eventi è essenziale per mettere in luce verità scomode e urgenti.
Il 5 dicembre 2024 Amnesty Interntional ha pubblicato un rapporto intitolato “You feel like you are subhuman” (“Ti senti come se fossi un subumano”) di quasi 300 pagine nel quale l’associazione direziona allo Stato di Israele l’accusa di Genocidio nei confronti della popolazione Palestinese di Gaza; il rapporto sviluppa le argomentazioni a sostegno di questa tesi analizzando la condotta e le violazioni che Israele ha perpetrato dal 8 Ottobre 2023 a luglio 2024.
Genocidio – contesto giuridico
Secondo la Convenzione sul Genocidio, il genocidio è definito come uno dei seguenti atti, commessi con l’intento di distruggere – in tutto o in parte – un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso:
- Uccidere i membri del gruppo
- Causare gravi danni fisici o mentali
- Infliggere condizioni di vita che provochino la distruzione del gruppo
- Impedire le nascite all’interno del gruppo
- Trasferire con forza i bambini del gruppo ad un altro gruppo
La presenza di uno o più di questi atti, e l’intento di commetterli finalizzato alla distruzione del gruppo, devono essere valutati con prove dirette e indirette, provandone la natura sistematica delle azioni e l’entità dei danni.
La formulazione dell’accusa contenuta nel rapporto Amnesty
Il rapporto si concentra sui primi tre dei cinque atti – sopramenzionati – proibiti dalla Convenzione sul Genocidio, evidenziando come Israele abbia causato danni su larga scala, distruggendo infrastrutture vitali, forzando sfollamenti massicci in condizioni disumane e ostacolando l’ingresso degli aiuti umanitari, il tutto con l’intento di infliggere danni sistematici alla popolazione.
Le prove incorporate nel rapporto ad argomentazione della tesi d’accusa di genocidio sono molteplici: utilizzo ripetuto di armi esplosive in aree densamente popolate, dichiarazioni disumanizzanti di funzionari israeliani relativamente alla popolazione palestinese, interviste ai civili, alle autorità locali ed agli operatori sanitari, prove visive come immagini satellitari e video, rapporti di gruppi per i diritti umani, agenzie ONU ed altre organizzazioni umanitarie, contesto di apartheid presente già prima dell’inizio del periodo analizzato, dell’occupazione militare e del blocco illegale di Gaza in essere già dal 2007.
Riflessioni antropologiche e grandi contraddizioni
L’antropologa francese Françoise Héritier definisce la violenza come “ogni fenomeno di natura fisica o psichica che porti con sé il terrore, la fuga, la disgrazia, la sofferenza o la morte di un essere umano o ancora qualunque atto intrusivo che ha come effetto volontario o involontario l’esproprio dell’altro il danno o la distruzione di oggetti inanimati.”. Il genocidio rappresenta una forma di violenza politica e collettiva, radicata in un contesto di “alienazione” in cui la responsabilità non pesa su un singolo individuo, ma è condivisa da un gruppo, rendendo tale male apparentemente più leggero, giustificato e normalizzato, fino ad essere interpretato come un tentativo di ristabilire un ordine perduto. Il genocidio è un processo sistematico, che richiede , ideologia, organizzazione e una diffusione capillare di questi elementi.
Il concetto di deumanizzazione
Un aspetto cruciale da considerare per la comprensione del concetto di genocidio è la deumanizzazione; come suggerisce il titolo del lavoro condotto da Amnesty, la parola “subhuman” riassume tale concetto. La deumanizzazione rientra anche ne i dispositivi di disimpegno morale, trattati dallo psicologo Alber Bandura, ovvero quei meccanismi che permettono agli individui di allontanarsi dalla propria moralità, attenuando i controlli interni che normalmente impedirebbero atti di violenza.
Una delle domande sollevate in risposta al rapporto Amnesty riguarda il paradosso di come un popolo che ha subito un genocidio – e a seguito del quale ne è anche nato il nome (il termine genocidio compare per la prima volta nel 1944 in un prodotto scritto del giurista polacco Raphael Lemkin per definire la politica razziale del nazismo) – come quello ebraico, possa successivamente perpetrarne uno contro un’altra popolazione. Spesso, questo conflitto viene interpretato attraverso una lente triadica che associa ruoli di “vittima”, “salvatore” e “persecutore” alle nazioni/gruppi coinvolti, un modello noto come triangolo di Karpman o triangolo drammatico, che implica che ogni entità nella storia abbia un ruolo ben definito.
Tuttavia, tale interpretazione semplifica e appiattisce una realtà complessa, che prevede una maggiore liquidità tra i ruoli (che una vittima possa in realtà trasformarsi in carnefice), rendendo più idonea una denominazione funzionale delle entità, come soggetti implicati, più che una denominazione morale.
Questa dinamica è ampiamente documentata e studiata, rendendo insostenibile l’affermazione secondo cui un gruppo storicamente vittimizzato non potrebbe mai diventare perpetratore: la letteratura storica offre infatti numerosi esempi di inversione dei ruoli, ed uno dei motivi del ciclo vittima-divenuta-perpetratore è la paura delle vittime di diventare nuovamente vittime, e quindi “prevengono” possibili nuove violenze contro se stesse attaccando i percepiti potenziali autori del reato.
Da vittima a persecutore
Negare che Israele stia perpetrando un genocidio a Gaza basandosi sul fatto che sia stato a sua volta vittima di un genocidio è una fallacia logica nota come tu quoque (o appello all’ipocrisia) che sposta l’attenzione dall’atto di genocidio al passato di sofferenza del soggetto coinvolto, ignorandone la possibilità di un mutamento nel comportamento o nella motivazione nel corso del tempo. La storia di un popolo oppresso non preclude che lo stesso possa diventare oppressore in un altro contesto, anche la geopolitica infatti è uno scenario in cui gli attori spesso cambiano ruolo o assumono più ruoli. Questo tipo di ragionamento può essere influenzato da bias cognitivi, come la fallacia del costo irrimediabile o il bias della vittima, in cui le azioni odierne sono giustificate attraverso il filtro delle sofferenze passate, distorcendo la realtà attuale.
Pertanto, la tesi secondo cui un gruppo storicamente vittimizzato non potrebbe mai perpetrare un genocidio manca di validità e di una base di analisi rigorosa. Come evidenziato nel rapporto di Amnesty, è fondamentale concentrarsi sui fatti del presente, valutando le azioni e le politiche attuali senza lasciarsi influenzare da distorsioni legate a traumi del passato. Solo attraverso una valutazione scrupolosa e priva di pregiudizi si può realmente comprendere la complessità delle dinamiche intergruppi e la responsabilità che ne deriva.