Era il 5 gennaio quando un anziano palestinese del villaggio di Umm al Kher, (Sud della Palestina) venne investito e poi trascinato, per diversi metri, da una camionetta dell’esercito israeliano. Si chiamava Haj Suleiman. L’uomo morì qualche giorno dopo in ospedale ad Hebron, trasportato d’urgenza dai suoi vicini. I militari che uccisero Haj Suleiman dichiareranno successivamente di non aver potuto soccorrere l’uomo a causa della folla agitata creatasi a seguito dell’omicidio.
L’articolo riportato su +972 Magazine, blog indipendente gestito da un gruppo di giornalisti israeliani e palestinesi, riporta l’episodio e mostra che cosa significa per un palestinese delle aree C vivere la propria quotidianità all’interno dei territori occupati.
Resistere per esistere. È il motto del comitato di resistenza non violenta creatosi nei villaggi delle colline a sud di Hebron. Haj Suleiman era un uomo, padre di famiglia e soprattutto attivista. Il suo villaggio Umm al Kher fa parte dei 15 villaggi che costituiscono la Firing Zone: un’area di circa 3000 ettari a sud della Cisgiordania che i soldati israeliani usano per le esercitazioni militari. La prima cittadina palestinese vicina (dichiarata area A dopo gli accordi di Oslo del 1993) si chiama Yatta. Una cittadina composta in gran parte dalle famiglie che furono evacuate con la forza dai villaggi, poiché Israele aveva bisogno di spazio per addestrare il proprio esercito. Alcuni però decisero di resistere e di restare.
Rimanere nei propri villaggi, coltivare la propria terra per generazioni, pascolare il gregge nello stesso punto ogni giorno, andare a scuola percorrendo lo stesso percorso sono abitudini e gesti quotidiani semplici, ma che nelle zone del Masafer Yatta (letteralmente zona a sud di Yatta), assumono un valore molto più importante; di resistenza, alle continue violazioni dei diritti umani.
Resistere per esistere quindi ma anche restare.
Restare, nonostante i coloni Israeliani (abitanti illegali nei territori palestinesi) distruggano piante di ulivi e avvelenino i terreni, malgrado la paura di venire colpiti dai sassi lanciati con fionde durante le ore di pascolo, affrontando la paura di subire violenze durante il tragitto verso scuola.
“Ritrovarti con il cranio fratturato può succedere anche mentre sei a casa, persino se sei un bambino sdraiato nel tuo letto” si legge in un passaggio dell’articolo sopraindicato.
A tutto questo i villaggi delle colline a sud di Hebron rispondono con l’arma più forte ed efficace: la nonviolenza.
La speranza di una risoluzione del conflitto che sia equa per entrambe le fazioni passa, quindi, attraverso la scelta quotidiana dei ragazzi e delle ragazze che compongono il comitato di resistenza non violenta delle colline a sud di Hebron e delle famiglie che popolano quella zona. Non solo palestinesi però, anche molti israeliani che decidono di lasciare le proprie certezze per supportare la resistenza pacifica fianco a fianco con il popolo palestinese, a dispetto della società israeliana che censura e nasconde la verità sui territori palestinesi occupati.
In questo si compone dunque la quotidianità di una parte della Palestina. Una parte composta da giovani palestinesi che scelgono ogni giorno di non cedere all’odio e all’indifferenza. Il loro è quindi un restare, un resistere ed un esistere. Una quotidianità che porta a dover lottare per affermare uno dei più imprescindibili dei diritti; quello ad un’infanzia felice, al lavoro e al futuro.
Uno spettatore esterno potrebbe facilmente cedere al pessimismo. Genera sconforto assistere all’ennesima ricostruzione di una casa distrutta, all’ennesimo albero di ulivo piantato (consapevoli del tempo che un ulivo ci mette per crescere), all’ennesima aggressione di un bambino da parte di un colono israeliano, all’ennesimo arresto sommario di uomini e donne “colpevoli di essere dalla parte “sbagliata” del muro, (quella che l’Europa e l’occidente sceglie di non guardare).
In realtà, ciò che affermano i palestinesi con i loro gesti quotidiani è il loro diritto indiscutibile ad abitare e vivere in quella terra, da ormai più di settant’anni rubata e violentata da parte delle forze di occupazione israeliane.
Aldo