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Donne Palestinesi nel conflitto

Nei conflitti moderni, donne, bambini ed anziani rientrano nella categoria dei soggetti da tutelare, poiché considerati soggetti fragili. Nel diritto internazionale, più precisamente nella Convenzione di Ginevra si ha come obbiettivo quello di protegge i civili, ovvero coloro che non partecipano ad un conflitto armato, in tempi di guerra. Infatti, nel Terzo Statuto e trattamento delle persone protette, nella Sezione I Disposizioni comuni per i territori delle Parti belligeranti e i territori occupati una particolare attenzione viene rivolta alle donne “Le donne saranno specialmente protette contro qualsiasi offesa al loro onore e, in particolare, contro lo stupro, la coercizione alla prostituzione e qualsiasi offesa al loro pudore”.

All’interno del contesto palestinese sono le donne a sentire maggiormente il peso del conflitto. Testimoni delle ingiustizie quotidiane, delle continue demolizioni, delle distruzioni dei terreni agricoli e di violenze ingiustificate.

Se da una parte abbiamo una situazione geopolitica ben chiara, dall’altra, il tessuto sociale palestinese è ancora fortemente dominato dal sistema patriarcale. Con la relegazione delle donne a ruoli tradizionali, e la continua produzione di ideologie machiste, si ristagna in una condizione di arretratezza conseguente alla mancanza di diritti. Un’oppressione che influisce su tutti gli aspetti della vita sociale, economica e politica della collettività palestinese.

Il movimento di donne Tal ‘at, grida ad alta voce che non ci potrà essere una nazione libera, senza donne libere.
Nonostante il contesto interno ed esterno che le rende vittime da entrambe le parti, le donne sono un elemento fondamentale della resistenza palestinese, soprattutto quella non violenta, cercando ed attuando pratiche creative per resistere all’occupazione e aprire nuove possibilità. Le stesse sfidano i soldati mettendo in prima linea il proprio corpo come scudo per il resto dei manifestanti. Un esempio è la giovane Ahed Tamimi, attivista palestinese, che si è distinta per la sua forza e tenacia. L’allora diciasettenne Ahed fu arrestata ed incarcerata per 8 mesi per aver difeso la propria famiglia dai soldati israeliani.

La presenza di donne, nella lotta contro l’occupazione, non è un fenomeno recente anzi risale al 1920 a seguito della Dichiarazione Balfour. Nel 1964 nacque l’Unione Generale delle Donne palestinesi, che lavora soprattutto nei campi profughi in Libano. Le donne presenti in questi campi, si sono occupate di conservare e tramandare l’identità palestinese alle nuove generazioni.

Secondo Hanan Ashrawi, più volte ministra dell’Autorità Palestinese, in un’intervista rilasciata al Globalist afferma che essere donna in Palestina significa essere parte di un movimento di liberazione nazionale e al tempo stesso battersi per il superamento dei caratteri più oppressivi di una società patriarcale. Nella stessa intervista Ashrawi prosegue evidenziando un aspetto fondamentale “Dover convivere ogni giorno con la violenza è qualcosa che segna per tutta la vita e rischia di permeare ogni ambito delle relazioni umane. Eppure, nella società palestinese le donne hanno conquistato spazi che nessuno ha regalato loro. E questo è un investimento per il futuro, quando vivremo da donne libere nello Stato di Palestina”.

Le donne palestinesi vogliono far parte delle decisioni prese dal proprio Stato, essere prese in considerazione e partecipare in modo attivo ai negoziati di pace. La non-violenza e la disobbedienza civile sono tra le pratiche più utilizzate per far sentire la
propria voce, a queste si uniscono solidali alla causa, seppure in minoranza, anche le donne israeliane, le quali si aggregano creando attività di condivisione, mettendo in discussione le politiche del proprio stato.

Ilana Hammerman, attivista israeliana, ha sfidato per decenni l’occupazione ed è membro di diverse ONG che tutelano i diritti umani, nel 2010 ha fondato un gruppo di donne per la disobbedienza civile (Woman’s civil disobedience group). La sua decisione, insieme altre attiviste, di far entrare in Israele un gruppo di donne e ragazze palestinesi per godersi il mare per la prima volta nella loro vita, ha ispirato la creazione di altri gruppi tra cui I Will Not Obey.

In un’area dominata da decisioni prese da uomini, dove le donne vengono lasciate in disparte, queste azioni fanno sempre più comprendere come, atti di disobbedienza civile, proteste non-violente e manifestazioni di solidarietà promosse da donne, sono un reale motore di cambiamento.


Articolo pubblicato su Fernweh