Nella definizione di patrimonio culturale data dall’UNESCO, rientrano i beni, i monumenti, gli agglomerati e i siti aventi un valore universale eccezionale sul piano storico, artistico, scientifico, etnologico e antropologico. La Convenzione del 1972 ha come obiettivo imprescindibile la salvaguardia del patrimonio mondiale. Il patrimonio culturale e naturale è soggetto a fenomeni di degradazione naturale, data dal decorso del tempo, ma a volte anche artificiale. Sul territorio palestinese si contano più di 3,300 siti archeologici presenti in tutta la Cisgiordania, ma il serpeggiare del conflitto in questa terra ha portato alla distruzione, molte volte volontaria, dei suoi tesori. È sempre più evidente che il conflitto delle parti in lotta ha spesso come obiettivo il patrimonio culturale dell’avversario.
Nonostante i diversi documenti internazionali ratificati da Israele, dal 1967 e specialmente durante e dopo l’intifada del 2000, è noto come lo Stato israeliano abbia danneggiato e distrutto siti storico-culturali e religiosi palestinesi. Pensiamo all’assedio della Natività di Betlemme, quando questo patrimonio mondiale si è trovato al centro degli scontri. L’esercito e la cittadinanza israeliana non sono gli unici ad aver danneggiato patrimoni, anche la controparte palestinese ha avuto il suo ruolo. Pensiamo alla Tomba di Rachele a Betlemme o alla Tomba di Giuseppe a Nablus, entrambe deturpate ed in seguito incendiate da dimostranti palestinesi.
I Territori Occupati Palestinesi sono suddivisi secondo quanto stabilito nel 1993 dall’accordo di Oslo, in zona A, B e C. Queste zone differiscono a seconda dell’autorità competente e sovrana su tale territorio. Israele, in quanto potenza militare occupante, ha l’obbligo internazionalmente riconosciuto di adempiere a determinati doveri nelle aree di sua pertinenza. Uno tra questi è appunto la tutela e protezione del patrimonio culturale palestinese che si trova nelle aree amministrate dalla potenza occupante. Nel 1995, l’accordo di Taba, favorì il trasferimento della giurisdizione delle aree A e B dal governo militare israeliano all’amministrazione civile palestinese e con questo anche i poteri e le responsabilità nell’ambito della gestione delle risorse culturali. Per quanto concerne l’area C, essa doveva passare gradualmente sotto l’Autorità palestinese, ma ciò non è mai avvenuto. Di fatto, il controllo civile e militare del 60% della Cisgiordania, comprensivo anche di Gerusalemme Est, rimane ad Israele.
I beni e i siti archeologici sono da considerarsi, oltre ad un patrimonio culturale, anche una fonte di guadagno per l’economia palestinese. Tuttavia, la costante mancanza di fondi e l’impossibilità nella quale si trova il Ministero del Turismo e delle Antichità palestinese di effettuare attività di tutela e conservazione, espone tali beni a significativi danni, oltre a quelli causati dal conflitto stesso.
La frammentazione territoriale creata dagli Accordi di Oslo, si aggiunge alla strategia politica di Israele di frazionamento geografico dello spazio palestinese. Con ciò s’intende la costruzione di barriere, strade non percorribili dagli arabi, checkpoint permanenti ed altri temporanei.
Il muro di sicurezza israeliano, o separazione, è stato fortemente voluto dal governo israeliano nel 2002 a seguito della seconda intifada. Oltre ad essere stato condannato da parte della Corte internazionale di Giustizia nel 2004, esso viola la IV Convenzione di Ginevra e trasgredisce il Patto Internazionale sui diritti economici sociali e culturali (ECOSOC). È stato più volte documentato e dimostrato che, durante la costruzione di questa muraglia di cemento armato alta 8 metri, con torri di controllo ogni 300 metri, l’andamento ha subito modifiche, incontrando siti archeologici di natura storico-artistica e considerati facilmente appropriabili. In questo modo è stato possibile includere questi siti all’interno dei nuovi e malleabili confini israeliani. Questo modus operandi, oltre ad evidenziare una strategia di appropriazione culturale, agevola la sottrazione di terra palestinese per aumentare l’espansione israeliana.
Quanto appena esposto, si manifesta palesemente a Hebron. Questa città, conosciuta dai palestinesi come Al-Khalil, con il protocollo di Hebron è spaccata in due dal 1997: H1 80% controllato dall’Autorità Palestinese e H2 20% controllato dall’Amministrazione militare israeliana. Essa è l’unica città della Cisgiordania che ha al suo interno un insediamento di coloni israeliani. L’attentato terroristico del 1994, ha segnato profondamente il destino della città, portando alla sua completa divisione. Tale separazione è presente persino all’interno del luogo più sacro del territorio, la Tomba dei Patriarchi o Moschea di Ibrahim (Abramo). Questo sito è sia il quarto luogo sacro dell’Islam che il secondo luogo sacro, dopo il Muro del Pianto, per la religione ebraica, poiché vi si trovano le tombe dei patriarchi d’Israele, ovvero Abramo, Isacco e Giacobbe. Un unico posto dall’immensa spiritualità per entrambe le religioni. I due ingressi sono inaccessibili dai fedeli della confessione opposta, l’ingresso ai sepolcri dei patriarchi (che si sviluppano in 4 metri per lunghezza) sono tenuti divisi da pannelli di vetro antiproiettile in modo da poter essere solamente osservati da entrambe le comunità religiose contemporaneamente.
La situazione di estrema tensione che si respira nella città di Hebron, la rendono uno dei luoghi più esplosivi della Cisgiordania e la recente dichiarazione del Comitato UNESCO di rendere questo luogo sacro sito palestinese patrimonio dell’umanità ha scatenato la fortissima risposta da parte d’Israele. Il rapporto tra Israele e l’UNESCO era già stato danneggiato nel 2011, con l’ingresso della Palestina come membro dell’organizzazione e il suo sempre più avvicinarsi allo status di Stato.
Attraverso l’appropriazione e il danneggiamento da parte di Israele del patrimonio culturale palestinese, considerato heritage as “one of the most intensively abused, excavated and subsequently disturbed worldwide”, vediamo come in questa terra qualsiasi cosa è soggetta alle dinamiche del conflitto. Per questo l’Autorità Nazionale Palestinese, insiste da anni nell’inserire il maggior numero possibile di beni, siti, monumenti all’interno della lista Unesco, in modo da poter garantire una salvaguardia di cui loro non sono capaci.
Articolo pubblicato su FERWEH