Il 2021 era iniziato con l’augurio di poter aprire una nuova e tanto attesa stagione di partecipazione democratica in Palestina. Dopo una serie di colloqui tra Fatah e Hamas – le due fazioni rivali che dominano la scena politica e dividono la società palestinese – il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmud Abbas annunciava, il 15 gennaio, l’indizione di ben tre consultazioni elettorali: legislative a maggio e presidenziali a luglio, alle quali si sarebbero aggiunte le elezioni per il Consiglio Nazionale Palestinese, l’organo legislativo dell’OLP.
Epocale la portata della notizia: in Palestina, le ultime elezioni si erano svolte nel 2006 e avevano decretato la sorprendente vittoria di Hamas su Fatah, con la conseguente apertura di una frattura politico-territoriale tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania.
Le speranze di quanti attendevano con impazienza la convocazione di nuove elezioni dopo un periodo di quindici anni di sospensione della democrazia si sono infrante lo scorso 29 aprile, momento in cui il presidente Mahmud Abbas ha annunciato il rinvio a data da destinarsi delle elezioni, citando il rifiuto di Israele a permettere lo svolgimento delle consultazioni anche a Gerusalemme Est come il motivo alla base di questa decisione.
Da canto suo, Israele ha mantenuto una posizione ambigua, invocando la propria crisi politica come impedimento a prendere una decisione in merito alle elezioni palestinesi. Il rinvio delle elezioni, soprattutto se letto alla luce della recente escalation militare nella Striscia di Gaza, impone una riflessione sul diritto del popolo palestinese a partecipare regolarmente alla vita politica del proprio paese, e contemporaneamente alla responsabilità di Israele di garantire i diritti civili e politici delle popolazioni arabe che ancora vivono sotto regime di occupazione.
La questione delle elezioni travalica quindi i confini della semplice competizione elettorale, andando ad intrecciarsi con tematiche ben più ampie come l’occupazione di territori palestinesi, le residue possibilità di realizzare la soluzione dei due popoli due Stati e le responsabilità giuridiche delle parti coinvolte.
Il ruolo di Israele nella politica palestinese
Con il regime di controllo misto della Cisgiordania previsto dagli Accordi di Oslo, una sistematica campagna di occupazione di territori da parte di coloni israeliani e le lotte intestine tra Fatah e Hamas, si capisce come l’organizzazione di elezioni in Palestina rappresenti una sfida politica e logistica non indifferente. Concretamente, il regolare svolgimento di consultazioni elettorali dipende non solo dalla volontà e capacità organizzativa palestinese, ma anche dalla contemporanea disponibilità israeliana a collaborare e garantire i diritti politici delle popolazioni arabe sotto il suo controllo.
Già gli Accordi di Oslo del 1993 sottolineavano l’importanza di libere elezioni democratiche come “passo fondamentale verso la realizzazione dei diritti legittimi del popolo palestinese”. L’art. III degli stessi Accordi riconosce il diritto dei palestinesi di Gerusalemme di partecipare al processo elettorale e il conseguente dovere di Israele e dell’Autorità Nazionale Palestinese di trovare un accordo che permetta lo svolgimento delle elezioni. Gli Accordi di Oslo hanno quindi una valenza centrale nel regolamentare la questione elettorale palestinese. Da un lato prevedono obblighi precisi per entrambe le parti; nel caso di Israele, questi obblighi non si limitano a una generica non interferenza, ma impongono un dovere di cooperazione con l’Autorità Nazionale Palestinese in vista dell’implementazione di un sistema elettorale basato su regole condivise riguardanti l’organizzazione della campagna elettorale, la regolamentazione dei media e la supervisione dell’intero processo di voto da parte di osservatori internazionali.
Dall’altro lato, pur fornendo un framework giuridico di riferimento, gli Accordi di Oslo non regolano la materia elettorale in maniera definitiva, subordinando di fatto i diritti politici dei palestinesi a delle intese che, di volta in volta, devono essere faticosamente negoziate. Questo problema non si pone quando, anche grazie alla pressione dei partner internazionali, le parti raggiungono un accordo che permette lo svolgimento delle elezioni. Questo scenario si è concretizzato nel 2006, quando Israele aveva permesso anche ai palestinesi di Gerusalemme Est di votare.
I limiti del sistema Oslo emergono invece più chiaramente in una situazione come quella odierna, dove a una mancanza di volontà di dialogo da parte dell’establishment israeliano, si sommano azioni e provvedimenti illegali come gli ingiustificati ostacoli alla campagna elettorale e gli arresti di candidati di Hamas sulla base di considerazioni di sicurezza, non adeguatamente denunciati dalla comunità internazionale.
L’atteggiamento della leadership palestinese
Considerato il contenuto degli Accordi di Oslo, è nel pieno diritto dei palestinesi pretendere che anche Gerusalemme Est possa partecipare alle elezioni. È questa una clausola esplicitamente prevista dal testo degli accordi che estende il diritto di partecipazione e voto anche a un segmento della popolazione palestinese che altrimenti sarebbe escluso da ogni forma di rappresentanza.
Il nodo Gerusalemme Est non deve però essere sfruttato dall’Autorità Palestinese e dal suo establishment per sviare l’attenzione dalle proprie responsabilità, reiterando una sospensione della democrazia che non va a beneficio né del popolo palestinese né del prestigio dei suoi governanti. Quindici anni dalle ultime elezioni è un lasso di tempo inaccettabile per un paese i cui leader si sono impegnati a rispettare i principi fondamentali sui quali si reggono i sistemi democratici.
Le istituzioni palestinesi hanno urgente bisogno di rinnovarsi, per tornare a essere realmente rappresentative degli interessi della popolazione che governano. I resoconti delle più importanti testate giornalistiche internazionali testimoniano un fermento e una voglia di partecipazione diffusa in tutta la popolazione palestinese. La convocazione delle elezioni era stata accolta con grande entusiasmo popolare, soprattutto tra le giovani generazioni che non hanno mai avuto occasione di recarsi alle urne.
I dati disponibili restituiscono l’immagine di un paese desideroso di far sentire la propria voce e di partecipare ad un processo democratico nazionale ed inclusivo: a seguito dell’annuncio di Abbas del 15 gennaio, il 93% degli aventi diritto si era registrato per il voto e ben 36 gruppi politici avevano presentato le proprie liste alla Commissione elettorale.
Indipendentemente dalle contingenze attuali e dai comportamenti israeliani, i leader palestinesi hanno il dovere morale di tenere in considerazione la voglia di democrazia che pervade la società, impegnandosi a far riprendere il processo elettorale il prima possibile.
Che si possano presto svolgere le elezioni già convocate e che da queste possa nascere un governo realmente rappresentativo, è nel pieno interesse di tutta la Palestina. Solo un nuovo esecutivo, forte di una rinnovata legittimazione popolare, potrà infatti difendere le istanze del popolo palestinese all’estero e cercare di ricucire lo strappo Hamas-Fatah, ferita ancora aperta che indebolisce la Palestina riducendone il potere contrattuale di fronte a Israele.
L’Autorità Nazionale Palestinese è quindi chiamata ad una prova di maturità: dimostrare un sincero attaccamento ai valori democratici per guadagnarsi la fiducia del proprio popolo e contemporaneamente affrontare efficacemente nodi che sono rimasti ancora irrisolti, primi fra tutti lo status di Gerusalemme Est e l’occupazione illegale di territori palestinesi.
Alcune considerazioni alla luce dei recenti avvenimenti di Gaza
L’impegno a favore della democrazia e quindi per la pronta riconvocazione delle elezioni sospese rappresenta la strategia più sicura per l’Autorità Nazionale Palestinese per guadagnare credibilità internazionale e permettere a tutto il popolo palestinese, viva esso a Gerusalemme, nel resto della Cisgiordania o a Gaza, di esprimersi finalmente in un processo elettorale il più democratico e trasparente possibile. È tuttavia innegabile che i recenti episodi di Sheik Jarrah a Gerusalemme e il conseguente riacuirsi del conflitto israelo-palestinese a Gaza ridurranno notevolmente le possibilità dei palestinesi di essere chiamati alle urne. Si è infatti aperta una fase dove l’escalation di violenza renderà ancora più difficile, nell’immediato e nel lungo periodo, un dialogo tra le due parti.
Se già prima degli attuali scontri Israele si era dimostrato indisponibile a cooperare con la controparte per garantire l’esercizio del diritto di voto anche a Gerusalemme Est, ora mancano del tutto i presupposti anche solo per pensare di mettere in moto la macchina elettorale sull’intero territorio palestinese.
Missili e razzi, oltre a un’intollerabile scia di violenza e di morte, hanno già messo in stand by la voglia di partecipazione del popolo palestinese, ancora una volta colpevolmente ignorata.
Giammarco Guzzetti