Roberto Brancolini: fotografo modenese, si occupa di reportage, ha seguito lo sviluppo dei movimenti anti-globalizzazione, le condizioni di vita dei rifugiati zapatisti in Messico, la vita dei civili palestinesi ed una ricerca fotografica sulle donne che migrano dall’Est Europa conosciute come badanti.
Le fotografie di Roberto Brancolini raccontano l’esperienza di adolescenti palestinesi arrestati dall’esercito israeliano nei Territori Occupati, nelle aree di Gerusalemme, Nablus e Hebron.
Ogni anno, Israele persegue tra i 500 e i 700 minori nei tribunali militari. Si stima che dal 2000 le autorità israeliane abbiano detenuto, interrogato, perseguito e imprigionato circa 13.000 ragazzi palestinesi.
Cosa ti ha indirizzato verso i territori occupati palestinesi? E com’è stato per il primo viaggio verso questa terra?
Sono stato spinto dalla curiosità di andare a vedere le cose di cui si sente parlare con i propri occhi, altrimenti si ascoltano soltanto voci o si leggono articoli, ma fino a quando una persona non ha un contatto reale ed effettivo con la situazione non si rende conto di quella che è la realtà. La prima volta che mi sono recato nei territori palestinesi è stato con AssoPace a cavallo tra il 1999 e il 2000. Per me è stato un viaggio conoscitivo, dove abbiamo avuto la possibilità di vedere con i nostri occhi e poterci addentrare nella questione israelo-palestinese.
Dal 1999 ad oggi quante volte sei stato in Palestina? Ad oggi la tua prospettiva è cambiata rispetto al tuo primo viaggio?
Sarò stato più o meno una ventina di volte, direi che non è cambiata la mia prospettiva è cambiata la prospettiva del paese. Il muro ha cambiato faccia alla Palestina. Quando ero andato la prima volta, il checkpoint di Kalandia non esisteva, c’era solamente un soldato dietro a un blocco di cemento che ogni tanto controllava i documenti o faceva qualche domanda ma nulla di più, adesso invece si è passati a delle mega strutture, mostri di cemento. Per cui sì, direi che la terra che andavo a vedere stava e sta cambiando, ma non la mia prospettiva nel vedere le cose.
Le tue fotografie rappresentano giovani ragazzi palestinesi arrestati con accuse molto improbabili. Ci sono dodicenni arrestati perché in possesso di oggetti appuntiti oppure per il lancio di una pietra. Come mai hai deciso di focalizzarti su questa realtà?
Perché mi sembrava un tema totalmente ignorato, molto grave e di cui si parla troppo poco. Di fatto parliamo di un paese che viene considerato del primo mondo eche maltratta in maniera sistematica e quasi rituale i minori palestinesi, questo non sarebbe tollerabile in nessun altro Stato. Vedere dei minori che subiscono violenze fisiche e soggetti a pene detentive non è accettabile.
Sono cose di cui si sta venendo a conoscenza soprattutto grazie ai social media ma decisamente non sui media tradizionali. Il che è assurdo dato che ci sono svariati report pubblicati da DCI International, Save the Children, B’Tselem, dove sono stati riportati casi di centinaia di minori che subiscono e hanno subito queste violenze.
La mostra che è stata organizzata in collaborazione con Osteria Volante, Il Centro di Diritti Umani dell’Università di Padova e tante altre organizzazioni, si chiama “Figli di un Dio Minore”, che rapporto hai con la religione e con il pluralismo religioso che i territori occupati offrono? Cos’è che ti ha colpito di più delle immagini scattate?
Secondo me non è una questione prettamente religiosa, diciamo pure che la religione è un pretesto per il possesso della terra. Capita che i palestinesi siano musulmani come cristiani, e che gli israeliani siano di religione ebraica ma non c’entra nulla è un falso appiglio. Ho deciso di chiamare la mostra Figli di un Dio Minore, semplicemente perché i palestinesi vengono considerati come gli ultimi degli ultimi, anche dagli stessi confratelli arabi.
Qual è il messaggio che vuole comunicare attraverso l’esposizione delle tue foto proprio a Padova?
Portare alla luce, alla portata di tutti e far conoscere a più persone possibile che cosa vuol dire essere un adolescente palestinese che vive nei territori occupati che subisce violenze e rischia quotidianamente la detenzione da parte dell’esercito israeliano.
Gli amici che ho al Centro di Diritti Umani dell’Università di Padova sono stati i primi a prospettare l’idea di una mostra e si sono offerti di darmi una mano ed io ho accettato molto volentieri. Ringrazio loro moltissimo per il lavoro e l’attenzione che ci hanno messo per allestire questa mostra anche perché senza il loro supporto la mostra non si sarebbe potuta tenere.
Se dovessi descrivere con una sola parola la tua esperienza come fotografo nel ritrarre adolescenti palestinesi, quale sarebbe?
La descriverei con un aggettivo e sarebbe sicuramente incredibile.
Pensi che ci sia qualcosa che manca nel modo in cui viene trattato e narrato il conflitto isreaelo-palestinese nei media tradizionali rispetto a quello che hai potuto vedere con i tuoi occhi?
Credo che i media tradizionali dovrebbero iniziare a guardare il conflitto senza il peso della Shoah, questa ancora incide consciamente ed inconsciamente nella testa e nel modo di narrare di tanti giornalisti nel descrivere gli eventi facendo cadere sui palestinesi colpe che non hanno. C’è da aggiungere che solitamente i media tradizionali non affrontano mai il tema della disparità di forza tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Da una parte si trova uno stato riconosciuto dalla comunità internazionale nonché una delle prime potenze militari all’mondo, e dall’altra l’ANP che amministra, in base alla suddivisione per aree, i territori occupati palestinesi. Ecco in questo caso parliamo di uno stato non riconosciuto dalla comunità internazionale e senza un esercito e credo ci sia una bella differenza in questo che non viene mai sottolineata.
Per il tuo lavoro hai documentato diverse migrazioni e condizioni di povertà assoluta e disagio sociale. Sei stato tante volte in Terra Santa, ma hai anche ritratto gli zapatisti in Messico e la rotta delle donne dell’Est Europa, trovi una similitudine in tutte queste esperienze umane?
A primo impatto direi di no, perché sembrano tutte situazioni disconnesse ma se ci penso la cosa che ho notato che accomuna tutte queste esperienze umane è la dignità nel superare le situazioni senza lasciarsi abbattere dagli eventi, la forza con cui mantengono la loro posizione, possiamo dire la resilienza con cui cercano di vivere.
L’ultima domanda che ci piacerebbe rivolgerti riprende un po’ quello di cui abbiamo parlato all’inizio di quest’intervista. Hai fatto il tuo primo viaggio in Palestina ancora prima che il muro di separazione fosse costruito. Sappiamo che ad oggi il muro divide città e separa campi profughi dal resto dei centri abitati. Qual è stata la tua impressione rispetto alla visione di un muro che incarna il potere israeliano? E infine che sensazioni hai avuto nel conoscere la vita condotta nei campi profughi dell’UNRWA, presenti in più punti della Cisgiordania?
Ricordiamoci che ad oggi i campi profughi non sono più quelli che ci raffiguriamo nel nostro immaginario, ma sono delle vere e proprie cittadine alle estremità delle città e consolidate nel tempo. Molte volte sono adiacenti alle porte di accesso. I campi profughi sono spesso focolai di rabbia dei palestinesi. Spesso i Check point vengono chiusi dall’esercito israeliano impedendo ai palestinesi di entrare in Israele per motivi di lavoro nonostante siano in possesso dei permessi. Solitamente i palestinesi attendono anche molte ore prima di entrare in Israele ed è proprio lì che la rabbia diventa forte e ha modo di emergere.